“Le cose che sai di me” – Intervista a Clara Sánchez
Clara Sánchez, vincitrice negli ultimi anni di tutti i maggiori premi letterari spagnoli, già molto conosciuta anche nel nostro Paese per i romanzi Il profumo delle foglie di limone, La voce invisibile del vento e Entra nella mia vita, è in Italia per presentare Le cose che sai di me (edito da Garzanti, nella traduzione di Enrica Budetta), con il quale, nel 2013, ha vinto il premio Planeta, considerato, in Spagna, il massimo traguardo letterario.
Patricia è una giovane fotomodella di successo, che sull’aereo che la riporta a Madrid dopo un viaggio di lavoro si trova seduta accanto a Viviana, una strana donna che le rivela che qualcuno sta desiderando la sua morte. Patricia, che è bella, ricca grazie al successo nel lavoro, e felicemente innamorata del marito, vorrebbe dimenticare queste parole, ma diversi incidenti che la coinvolgono in poco tempo la convincono che ciò che Viviana ha detto potrebbe essere vero. Inizia, così, una ricerca affannosa, anche se a tratti un po’ sconclusionata, per arrivare a scoprire chi minaccia le sue certezze, nel corso della quale Patricia si trasforma da ragazza ingenua in donna consapevole di ciò che non va in una vita apparentemente felice.
A Milano per la prima presentazione alla Libreria Feltrinelli di Piazza Piemonte, Clara Sánchez ha incontrato in anteprima un piccolo gruppo di blogger presso la sede della casa editrice Garzanti. Ecco le sue risposte alle nostre domande.
Io devo dire che ho trovato un po’ debole il pretesto dell’incontro con la veggente che dà inizio alla storia. Come mai hai deciso di partire proprio da quello?
Patricia ha bisogno che qualcuno le apra gli occhi, perché crede che la sua vita sia stupenda, ma forse le cose non stanno esattamente così. Avendo conosciuto nella realtà una persona come Viviana, ho pensato che fosse giusta per dare quella spinta di cui Patricia ha bisogno per capire la vita. Tutti noi abbiamo bisogno che qualcuno ci dia una mano. Se ci affidiamo alla religione, è perché speriamo che ci arrivi qualcosa dal cielo, ma se ci affidiamo alla magia siamo poi noi a modificare la vita. Per me, in realtà, la magia è immaginazione, un modo per giocare con la realtà. Credo profondamente nell’intuito, che arriva dove non giunge la razionalità: un sesto senso, o come vogliamo chiamarlo, che può utilizzare quei dati che galleggiano nella mente senza una collocazione. I matematici e gli scienziati forse usano di più la razionalità, ma come scrittrice uso molto l’intuito. In Viviana ho raffigurato un Sancho Panza del Don Chisciotte che è Patricia.
Come mai ha partecipato al premio Planeta con uno pseudonimo?
In Spagna, è una cosa diffusa, in certi premi è addirittura obbligatorio. In realtà, l’ho fatto per non dovermi giustificare in caso di sconfitta… Il Planeta, in Spagna, è importantissimo e ogni anno la mia famiglia si doveva sorbire la mia delusione se partecipavo senza vincere. Con loro ero davvero noiosa, così mio padre mi chiamava la sera del premio per rammaricarsi, in modo da prevenire i miei lamenti. Ho partecipato con il nome José Calvino: José come mio padre, che purtroppo era morto da poco, e Calvino perché amo il suo romanzo Se una notte d’inverno un viaggiatore, e credo che l’accoppiata mi abbia portato fortuna.
A un certo punto Patricia si fa visitare da un medico, il quale le dice che i suoi 26 anni sono un’età difficile, come se fosse a metà del guado di quel fiume che è la giovinezza. La scelta di quell’età è casuale o voluta?
Questo, in effetti, è un romanzo di formazione, perché Patricia deve forgiare la sua vita. Il numero degli anni mi è venuto per caso, ricordando come fossero stati per me un’età abbastanza cruciale. La gioventù è, per tutti, un’età di angosce, che si è allungata: anche in Spagna ormai si rimane precari per molti anni. Si è circondati da stimoli e si potrebbe fare molto, ma, mancando le opportunità, si riesce a fare molto poco, e questo genera per forza angoscia. Patricia sembra una privilegiata, ma è davvero soddisfatta del suo lavoro? Il successo genera invidia negli altri, e la pressione per mantenerlo genera angoscia, ma diventa anche una droga pesante. Il lavoro di modella è emblematico perché viviamo nel regno dell’immagine e facciamo enormi sacrifici per mantenere la nostra immagine di successo, consumando energie che dovremmo dedicare a cose più importanti.
Quanto pesano sulla tua scrittura il tema del sospetto e della ricerca della verità?
Noi viviamo senza sapere cosa accadrà domani. Anche se possiamo pianificare il futuro, spesso accade qualcosa che cambia tutto. In tutti i miei romanzi sono presenti il sospetto e l’intrigo psicologico perché fanno parte della vita, e la suspence non sta per forza solo nel genere poliziesco.
Se chiediamo a un impiegato che lavora otto ore al giorno in un ufficio di raccontarci la sua vita, all’80% ci racconterà frottole, perché la descriverà non come è, ma come vorrebbe che la vedessero gli altri. Tutti noi siamo narratori nati e passiamo molto tempo a raccontarci storie, ma un narratore non vede il mondo come uno scienziato, e molto di quello che dice viene dalla sua immaginazione. Nel romanzo ho cercato di trasmettere la sensazione della paranoia. Penso a Il giro di vite di Henry James, dove non sappiamo se ciò che ci viene raccontato sia vero oppure no. E penso a una scena del film Gli uccelli di Hitchcock, dove noi vediamo la protagonista su un dondolo, mentre alle sue spalle si radunano gli uccelli, di cui noi siamo consapevoli e lei no. Ecco, in Le cose che sai di me il lettore vede subito che Elias, il marito di Patricia, agisce come un vampiro nei suoi confronti, ma lei non se ne rende conto.
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Sei stata influenzata dal realismo magico sudamericano?
No. Questo romanzo, anche se parla di magia, è esistenzialista: m’interessa mostrare quello che accade alla protagonista, e non parlo di eventi soprannaturali. L’unico riferimento al mondo americano mi è venuto dal ricordo di un mercato visitato a Sonora, dove c’è un enorme spazio dedicato alla magia, dove vendono erbe e oggetti per riti vari, che mi è venuto in mente quando ho immaginato la casa di Viviana, con la sua atmosfera e i suoi odori.
La struttura ciclica dei capitoli è funzionale a esprimere la paranoia di Patricia?
Patricia è obbligata a sospettare di tutti. Crede alle parole di Viviana quando inizia a pensare che davvero qualcuno le voglia fare del male. Io stessa ho vissuto un periodo in cui mi erano capitati diversi incidenti in poco tempo, e ho vissuto le sue sensazioni.
Scrivere della morte ne esorcizza la paura?
Dobbiamo parlare delle cose che ci preoccupano. Io scrivo per parlare dell’inquietudine della mia vita, e quindi anche della morte, ma l’amore è comunque più forte della morte. Nel romanzo l’amore viene messo in discussione, è visto come schiavitù e dipendenza, da cui Patricia deve liberarsi per non essere manipolata: in principio, è una specie di Anna Karenina ossessionata dal suo amore, ma non sceglie di morire per questo. Spesso, per le donne, l’amore diventa una zavorra, perché ci lasciamo vampirizzare dagli altri.
Come vivi il rapporto con i tuoi personaggi e quale preferisci fra tutti quelli che hai inventato?
Tutti i miei personaggi sono ispirati a persone che esistono realmente, ma questo non vuol dire esattamente uguali: vengono dalla mia vita, alcuni li amo e altri li detesto. Non sopporto, però, che risultino indifferenti al lettore, e mi piace se qualcuno mi dice che vorrebbe prenderne uno a calci perché non lo può sopportare. Dietro ogni personaggio c’è una storia della mia vita: Viviana assomiglia a una mia ex compagna di scuola, che, rivista dopo molti anni, era profondamente cambiata a seguito di esperienze dolorose, Irina ricorda la mia prima datrice di lavoro, che ora è anziana e con cui sono amica mentre da giovane mi terrorizzava. Mi piace pensare a quello che c’è dietro ogni storia, come nel famoso quadro Las Meninas di Velázquez: immaginare quello che c’è dietro la porta. Il mio personaggio preferito è nel romanzo che ho scritto nel 1996, Desde el mirador [Dal belvedere], che parla dell’esperienza di una donna che si ammala. Mia madre allora era rimasta inferma per tre mesi, io l’assistevo e facendolo avevo superato una porta per andare verso il lato sgradevole della malattia, di cui fino ad allora non ero stata per nulla consapevole. Questo personaggio mi è caro perché è ispirato molto a mia madre. Nei miei romanzi, c’è sempre tanto della mia famiglia, tanto che cominciano a dirmi che sono stufi di essere rappresentati!
Il successo ti ha cambiata?
Non tanto. Il premio Planeta è arrivato al momento giusto, perché forse da giovane l’avrei vissuto in modo diverso. Io scrivo per condividere le mie esperienze, e per questo sono molto grata che siate qui ad ascoltarmi. Ho spesso paura che quello che scrivo non venga condiviso e capito.
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