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“Le cose che restano”, quando la trama è sentimento

“Le cose che restano”, quando la trama è sentimentoLe cose che restano di Jenny Offill (NNeditore, traduzione di Gioia Guerzoni) ha un merito eccezionale, che viene prima di tutta la poesia profonda disciolta nelle sue pagine: sceglie di parlare attraverso gli occhi di una bambina di otto anni. E questa è una soluzione narrativa coraggiosa, che premia quel coraggio aprendo mille mondi.

Innanzitutto, apre il mondo della fantasia. Grace guarda alla realtà con il filtro di una mente prelogica, che si sofferma su tutti i movimenti più bizzarri, sui gesti più naturali con curiosità pura. E questo non vuol dire che non vi cerchi spiegazioni, in quelle cose. È anzi una bambina che pone tante domande, che vuole darsi le risposte più sensate; ma non ha nessuno schema logico preconfezionato. Si approccia alla vita con disponibilità, completamente aperta a tutte le possibilità. Mi ricorda la piccola voce narrante di Quel che sapeva Maisie di James, gli stessi occhi curiosi di una ragazzina che deve imparare a crescere attraverso e nonostante quello che gli adulti fanno. Le azioni dei grandi, allora, vengono raccontate da un punto di vista posto più in basso, da una distanza che non le giudica, ma le prende per quello che sono: ne è stupita, ne è sgomenta a volte, ma non le giudica.

Perché poi, Grace è la voce del libro, ma la grande protagonista è sua madre, questa donna di un fascino morbido (che non viene mai descritto, ma si percepisce sempre) che ha una mente multiforme, intelligente, estremamente volubile. E ancora, il grande protagonista del romanzo è il rapporto tra madre e figlia, raccontato nella sua caratteristica di legame esclusivo, totale, totalizzante. Il padre vi rientra a margine, e solo per acutizzarlo o sfrangiarne gli spigoli. La trama vera è proprio lo snodarsi del rapporto, è esso che amplifica le situazioni, i momenti cruciali dell’azione.

“Le cose che restano”, quando la trama è sentimento

Il lettore si innamora di un legame così. È fatto di racconti fantastici, di leggende africane, di una lingua inventata, delle lezioni sull’universo e sull’evoluzione che la mamma di Grace organizza per sua figlia. Mamma e figlia sono allora amiche, ma anche maestra e allieva, confidente e confessore. E spesso i ruoli si invertono inavvertitamente. Anna si inventa un calendario cosmico per educare Grace, e ricostruisce la galassia in una stanza, ma Grace offre alla mamma spunti nuovi di riflessione da cui riconsiderare certi aspetti.

Anna porta la figlia a nuotare nel lago di notte, raccontandole di un mostro che abita sul fondo delle acque, poi tornano a casa nude perché hanno perso i vestiti. Le cose che restano della Offill ti stupisce per situazioni così al limite: i discorsi bizzarri, le domande e le risposte inconsuete che si danno i personaggi, gli oggetti strani che compaiono.

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Però, il mondo colorato, divertente, pieno di storie e mostri e popoli che la mamma consegna alla figlia si spezza all’improvviso, quando la bambina deve fare i conti con la vita vera, e soprattutto con un genitore ingombrante e pieno di nodi irrisolti nella testa. In un’intervista, la Offill dice: «Come Eraclito, credo che il carattere dell’uomo sia il suo destino»; il destino di Anna è implicito nelle pagine che parlano di lei, senza ombra di dubbio. Questa, mi pare, è un’altra bellezza nascosta del romanzo, saper dire tutto di una persona senza descriverla, senza forzare la penna, con un racconto leggero che si compie quando meno te lo aspetti.

“Le cose che restano”, quando la trama è sentimento

Con Le cose che restano la Offill mi sembra una piccola luce splendente nel panorama letterario contemporaneo, grazie al suo saper raccontare senza cercare a tutti i costi la trama, riuscire a emozionare risvegliando i sentimenti più ingenui e forti di quando eravamo bambini: «Quando ero molto piccola, mia madre cercò di insegnarmi a volare. Mi mettevo in cima alle scale e aprivo le ali. Mia madre mi aspettava sotto con le braccia aperte. “Vola” diceva, e io mi lanciavo in aria. La mamma mi prendeva sempre. “Avevo paura che volassi troppo lontano” diceva, mettendomi a terra. A volte mi esercitavo da sola. Quando mio padre vide il sangue sulle mie ginocchia e sui gomiti, cercò di farmi smettere. “Le persone non sono adatte a volare” spiegò. “I nostri corpi sono progettati in modo sbagliato”. Non gli credevo. Era lui che mi aveva detto dei bombi, di come le loro ali fossero troppo sottili per reggere quel corpo grasso. Ma in estate erano dappertutto e ti sfrecciavano accanto ronzando come pazzi».

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