Le cose che non finiscono mai. “L’Atlante dell’Invisibile” di Alessandro Barbaglia
Il primo mostro, nell’Atlante dell’Invisibile di Alessandro Barbaglia (Mondadori), è un ingegnere che ha il passo d’una forbice. Cammina, e la sua andatura sembra fatta apposta per tagliare e ricucire la realtà, per modificare e stravolgere paesaggi.
Ci sono poi i Krampus, c’è il Re dei Ragni, c’è suor Laura che, a forza di pulirgli la lingua col sapone, fa perdere la parola a suo nipote Ismaele, da sempre il muto del villaggio, e poi – non come mostri ma come eventi e oggetti magici – ci sono tutte le cose che non si vedono, ma che da qualche parte devono finire per forza.
Almeno secondo i protagonisti di questa storia (tre bambini di quattordici anni, uno dei quali è per buona parte del testo anche narratore), per i quali le cose invisibili sono le cose infinite che non finiscono ma scompaiono soltanto, e uno dei luoghi dove vanno a sedimentarsi è appunto quel quaderno sbocconcellato dagli anni che loro hanno chiamato Atlante dell’Invisibile, fra le cui pagine una notte sono riusciti a intrappolare persino la luna.
I luoghi in cui si svolge la storia sono almeno tre: Santa Giustina, un paesino nella val di Non; Barlassina, un paesino vicino Milano; e Novara coi suoi campi di riso immersi nell’acqua. Il tempo in cui si svolge è il 1989, ma anche il 1946 e il 2007.
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Le storie che s’intrecciano sono molte: quella dei tre bambini dell’Atlante, ma anche quella di Elio e Teresa, una storia d’amore che va avanti dai tempi in cui Coppi ha vinto il Giro d’Italia staccando di una vita il secondo, un francese di nome Lucien Teisseire, ed è stato proprio nello iato di quel distacco che, abbaglianti nella loro giovinezza, Teresa ed Elio hanno incrociato per la prima volta i loro sguardi e i loro passi, e si sono messi a ballare nel deserto d’un Bar Sport qualsiasi della provincia lombarda.
Ma è anche la storia di Elio e basta, costruttore di mappamondi sbagliati, nei quali le geografie sono scompigliate e confuse, e un lago compare dove dovrebbe esserci un deserto, un vulcano dove dovrebbe sorgere una città, e una virgola enorme emerge proprio nel bel mezzo d’un oceano, perché le storie e le invenzioni non possono finire con un punto, ma con una virgola.
Un destino, quello di Elio, all’apparenza uguale a quello dell’ingegnere dalle gambe di forbice, che però non inventa mappamondi per rendere il mondo un luogo più bello, ma rimpasta geologie e topografie affinché il mondo si faccia più utile, forse più moderno, e allora il blu dilaga dove un tempo c’era il verde, e un lago prende magicamente il posto di Santa Giustina, il paese dei tre bambini che nel 1989 verrà sommerso per sempre (tranne per una parentesi tecnica, ma fondamentale, nel 2007), insieme al suo campanile e alle sue ore, che non batteranno più.
Santa Giustina: «Un paese piccolissimo, settantasei case, una scuola di suore, una piazza e un municipio, tutto a pochi chilometri da Cles.» Un mondo a picco sotto le Dolomiti, dove un tempo c’era il cobalto del mare e oggi c’è lo smeraldo dei prati, e dal 1989 c’è di nuovo l’acqua, perché l’ingegnere gambe-di-forbice ha tagliato il mondo come voleva lui, barattando lo scampanio delle mucche col movimento delle alghe e dei pesci, comprando il silenzio di suor Laura con tre pappagalli africani che parlano e sparlano senza sosta, al contrario di Ismaele che invece non emette più un suono per colpa di quel sapone che un tempo gli ha rasato la lingua.
E poi ci sono le malghe, su in alto, verso i pascoli, gli unici luoghi che si salveranno dall’inondazione, dalla fine di tutte le cose e dell’infanzia.
Un’infanzia che non riesce a non uscir fuori dal selciato dell’età adulta con la sua pertinacia di pianta montana, perché le cose infinite diventano invisibili ma non finiscono, e così la grande amicizia fra Sofia, Ismaele e il narratore-bambino durerà negli anni, nonostante la distanza che si frapporrà tra le loro vite, e riapparirà (come quella dei piccoli protagonisti di It, di Stephen King) molti anni più tardi, perché ai patti a cui si è fatto giuramento a quattordici anni non si può venire meno. Mai e per nessun motivo, e a prescindere se ci si trovi a San Giustino nel Trentino, o a Derry nel Maine.
Testo sognante, dall’andamento d’altalena, o di vento sui prati, o d’increspatura sul lago, L’Atlante dell’Invisibile di Alessandro Barbaglia ricorda il Tom Sawyer di Mark Twain, pieno com’è di suggestioni d’infanzia, di batticuori fanciulleschi, di creature invisibili che popolano il mondo contadino e quello bambino come i folletti colorano le saghe nordiche. Sembra quasi che quei terribili mostri d’alta quota chiamati Krampus a volte siano quasi dei burloni spiriti dei boschi, dei Puck shakespeariani che portano «l’autunno sulle gerle» e distribuiscono «gelo a manciate», chiamano «la prima neve ululando al vento e, come dice la Regola,» fanno «scendere le vacche dagli alpeggi; sono loro a far sì che i semi piantati si rompano dalla paura del loro passaggio, e che attecchiscano tremando al ventre della terra, e che prima o poi quel brivido fiorisca in pianta; sono loro che portano la notte, l’inverno, il gelo, tutto quello che c’è oltre il confine dell’estate.»
Limite importante, l’estate, perché, com’è scritto nell’Atlante, «un tempo era tutto vivo. Le forbici camminavano impettite, elefanti e teiere erano cugini. I fiori cantavano, i sassi pensavano seri e qui era tutto mare. I punti cardinali erano tre: il cielo, i monti e il prato. E l’unico confine era l’estate.»
Storia di storie che s’intersecano: quella di Elio e dei suoi mappamondi s’incrocerà sul finale con quella dei ragazzi di Santa Giustina, e lo stesso accadrà con la storia privata di Teresa e del suo papà scomparso quando lei era ancora una ragazza. Storia d’infanzie perdute e ritrovate. Storia di storie d’amore: quella segreta di Ismaele e Sofia, quella platonica del narratore per Sofia, quella di lungo corso fra Elio e Teresa.
L’amore: altro e alto protagonista del romanzo, che dona a chi lo sperimenta un nuovo modo d’osservare il mondo, che fa dire alla voce narrante che fu «di fronte a quel suo corpo nuovo che tutto divenne per me un infinito presente cucito addosso così com’è cucita la vita. Con i suoi punti, le sue croci. I suoi ricami e i suoi rattoppi. E i suoi risvolti fatti di vita. Cuciti tutti al contrario della morte.»
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Perché questo Atlante è una storia di sogni e di illusioni che non svaniscono e ritornano, di contrari che s’incrociano e s’influenzano: la voce dei pappagalli e il silenzio di Ismaele, i mondi di Elio e quelli dell’ingegnere, l’acqua del mare che un tempo ha dato vita alle Dolomiti e quella del lago che ora gli ha dato la morte…
Il mondo visibile e quello invisibile sono intessuti di contrari. Contrari osservati allo specchio, come gli specchi con cui Ismaele nasconde la casa sull’albero, al centro del prato-mondo che nel 1989 scomparirà sotto al lago fermando per sempre il tempo scandito dal campanile. Fermando l’infanzia.
Che prima o poi farà ritorno.
Perché, come ci insegna Alessandro Barbaglia nel suo Atlante dell’Invisibile, tutte le cose infinite non scompaiono. Diventano solo invisibili. Come l’amore di quand’eravamo ragazzi. Come la luna nel cielo.
O come un paese sommerso dall’acqua.
Per la prima foto, copyright: Matt Palmer.
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