Le colpe del golpe
Fa strano in questo nuovo millennio, che portava la scommessa dell’estensione della democrazia su tutto il pianeta, parlare di golpe e farlo per un Paese che dovrebbe essere in piena transizione democratica.
Fa strano perché la Turchia dimostra come la nuova epoca sia sostanzialmente incompatibile con la democrazia, quando persegue l’obiettivo populista di affidarsi a un uomo solo al comando. Democrazia e populismo personalistico non vanno d’accordo, e il loro conflitto apre a prospettive oscure, golpiste appunto, o, come avvenuto in Inghilterra con la Brexit, a retromarce e controsterzate del tutto inaspettate.
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Erdogan è un autocrate, lo sanno anche le pietre, e la sua risposta a un esercito impazzito e sconsiderato è già un irrigidimento della condotta democratica, una forzatura delle libertà individuali a vantaggio di una sicurezza dittatoriale: coprifuoco, azzeramento dell’uso dei social, imbastardimento dei rapporti con la stampa libera. Questo è Erdogan prima e dopo il golpe, questo sa fare uno dei più validi alleati della burrosa fortezza Europa. La cosiddetta risposta della piazza, del popolo, ai carrarmati era, in realtà, la risposta del partito del presidente, sceso in piazza per mantenere lo status quo a ogni costo.
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Periscope ci ha consegnato una notte di inni pro Erdogan, mentre alla stampa era vietato trasferire informazioni. Il golpe si è giocato senza clamore mediatico, ma con un eccesso di copertura sui social manipolato dagli amici di Erdogan. Nello stesso tempo, questi fantomatici golpisti non hanno mostrato di avere forza, energia e strategia per rimuovere l’astuto autocrate.
Diciamo che si è consumata una battaglia tra opposte visioni dittatoriali sullo scacchiere fragile di una democrazia franante, quella turca e quella europea. Quella europea, certo, perché l’Ue ha mostrato ancora una volta il suo tonto attonimento di fronte alla Storia. Il mondo euromediterraneo è il nuovo teatro del cambiamento, ma la risposta europea è oscillante: da un lato la condanna all’aspro controllo del potere da parte del governo turco, dall’altro miliardi di euro per consentire alla Turchia di fingere di trattenere profughi.
È una politica simile a quella adottata con Gheddafi con una differenza, che la Turchia non è la Libia, che la Turchia non si scioglierà come neve al sole, che senza la Turchia non regge il già fragile castello europeo. Per questo i capi di stato europei si prodigano, adesso, a confortare il martire Erdogan e a promettergli sostegno incondizionato. Quando, invece, individuate proprio in lui le responsabilità e le colpe di questo golpe, dovrebbero stimolare Istanbul a riavviare il processo democratico in chiave più libertaria.
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