Le case di 5 scrittori famosi
Alcuni scrittori famosi accompagnano la nostra vita ed entrano nelle nostre case.
Perché non provare anche noi ad entrare nelle loro?
Con l’aiuto di La finestra di Leopardi di Mauro Novelli, edito da Feltrinelli, diamo dunque inizio a un “viaggio sentimentale” nelle case di alcuni importanti scrittori italiani: è il momento di cercare «nella realtà le impronte della fantasia, dopo aver cercato nella fantasia le impronte della realtà».
Zaino in spalla, perciò, e partiamo alla volta di Recanati permettendoci di scompaginare l’itinerario da nord a sud scelto dall’autore.
Giacomo Leopardi
Palazzo Leopardi «è una costruzione sobria e imponente» in cui «l’ocra dei mattoni sottili, tipici delle Marche, è interrotto soltanto dal verde scuro delle persiane», oltre le quali si intravedono, al primo piano, «stanze zeppe di libri»: i discendenti del contino di Recanati vi abitano ancora e nell’aria aleggia tutt’oggi «qualcosa […] che gli impedisce di trasformarsi in un semplice museo».
Tra le cantine, il frantoio, la biblioteca, le grandi sale affrescate e la camera ove il poeta «vigilava, / sospirando il mattin» si avvertono le presenze degli altri componenti della famiglia: la madre Adelaide Antici, che molto spesso si ritirava in solitudine «a far di conto o a pregare»; il «signor padre» Monaldo, collezionista di cimeli (tra cui monete e palle di cannone napoleoniche) e, soprattutto, di libri. Molti e preziosi ne aveva salvati dall’oblio, comprandoli a «prezzi vilissimi» dai conventi in via di soppressione o dai tanti ecclesiastici in fuga dai francesi: ne aveva radunati quattordicimila (in seguito crebbero fino a ventimila) e con l’aiuto di Giacomo, Carlo e Paolina li aveva divisi per argomenti, in una biblioteca aperta a «FILIIS AMICIS CIVIBUS» (ai figli, agli amici e ai cittadini). Qui, «la delizia dello studio si trasformava in tortura»: la biblioteca era, per Giacomo, al contempo «carcere e […] luogo d’evasione, lodato e bestemmiato infinite volte».
In queste sale antiche e soprattutto nella prima, la preferita dal poeta, dalle finestre si riuscivano a scorgere il caseggiato in cui viveva Teresa Fattorini, la figlia del cocchiere, dal poeta eternata nella «lieta e pensosa» figura di Silvia; i «monti azzurri» e «il mar da lungi»; durante la notte, le vaghe stelle dell’Orsa e la luna, la «intatta luna» del Canto notturno di un pastore errante dell’Asia.
Palazzo Leopardi, via Leopardi 14, 62019 Recanati (Macerata)
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Alessandro Manzoni
Casa Manzoni, situata «nel perimetro del cerchio magico» dell’intellettualità milanese ottocentesca, si raggiunge attraversando piazza Belgiojoso ed entrando in via Morone. Al civico numero 1, ecco l’edificio; al suo interno, un museo dedicato a Don Lisander, gestito Centro Nazionale Studi Manzoniani: pur assaliti dall’«assurdo sospetto che di sopra […] attenda serio e paziente il nume che abitò queste stanze per ben sessant’anni», superando «uno splendido scalone», si riesce ad accedere alle sale espositive. A pianterreno, in alcune stanze (presto ribattezzate «isola di Giava» poiché proprio qui si rincorrevano le giavanade – i frizzi e lazzi fra amici) visse per alcuni anni, in affitto, l’amico e scrittore Tommaso Grossi: oggi, un velo di tristezza ci accompagna uscendo da questi locali, dopo aver visto il quadro a olio che raffigura Grossi al capezzale di Carlo Porta morente.
Al primo piano, scesa la sera, parenti e ospiti si riunivano nella “sala rossa”, un locale dalla mobilia semplice: un tavolino con pile di libri ricevuti in dono, i ritratti di famiglia e un pianoforte. A pochi passi, lo studio in cui vennero alla luce tanti capolavori: insieme alla camera da letto, è l’unico «ambiente […] rimasto allo stato originale». Tra i libri che «foderano le pareti», il camino presso il quale Manzoni amava ricevere gli ospiti e «gli strumenti di lavoro» come «il calamaio, qualche penna, un paio di forbicette, gli occhiali, un fermacarte, distribuiti sulla scrivania» come se «il proprietario dovesse tornare da un momento all’altro» si percepiscono «la potenza creatrice e l’arcano dell’uomo che ha dato non solo una letteratura, ma anche una lingua alla nuova Italia».
Sono però la «sobria semplicità» e la dignitosa riservatezza della camera a commuovere maggiormente il visitatore: tutto è rimasto come al tempo lontano, «il letto singolo col crocifisso inchiodato al muro, il tavolino per la toilette, […] l’ottomana, il cassettone, […] il paravento». Tra queste pareti si avverte, ancora intatta, l’aura di superbo grigiore di un genio ritroso, lucido e discreto; di un uomo che, pur conosciutissimo, ha lasciato un’impronta nella storia proprio grazie all’umiltà, alla metodicità e alla modestia.
Casa Manzoni, via Gerolamo Morone 1, 20121 Milano
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Gabriele d’Annunzio
Nel settembre del 1917 Gabriele d’Annunzio, sorvolando le acque del Benaco, s’innamorò del loro colore di «zaffiro schietto»; successivamente, nel 1921, grazie all’assiduità di alcuni collaboratori che ben sapevano assecondare le sue voglie, diventò proprietario della Villa del Cargnacco, a Gardone Riviera, e inaugurò imponenti operazioni di trasloco: dalla villa di Arcachon, in Aquitania, arrivarono «otto vagoni ferroviari» pieni di mobili, effetti personali e, naturalmente, libri.
L’architetto Gian Carlo Maroni fu investito dell’oneroso incarico di trasformare la villa in un tempio ove custodire le memorie dell’Imaginifico e divenne il «factotum della ‘Santa Fabbrica’»: d’Annunzio gli commissionò tutta «l’ossatura architettonica» ma, desideroso di “inventare”, si riservò la scelta di tappezzerie e addobbi: commissionò «stoffe a Mariano Fortuny, maioliche a Gio Ponti, sculture e vetri di Murano a Napoleone Martinuzzi», decorazioni in ferro battuto ad Alessandro Mazzucotelli.
Ogni ambiente è invaso da «un diluvio di oggetti» ed è difficile discernere «i capolavori dalle chincaglierie»: se a ciò aggiungiamo le modeste dimensioni di quasi tutte le stanze, molte delle quali «foderate di legno scuro» e vi uniamo anche la penombra in cui il poeta amava mantenerle, i molli afrori dei petali che, esangui, cercano riposo e il Furit aestus dei caloriferi, l’effetto doveva essere abbastanza opprimente.
Per il contemporaneo Pascoli la casa fu un nido; per d’Annunzio alternò le fattezze di «nascondiglio e palcoscenico»: nella stanza del Lebbroso, «fra pelli di giaguaro e statue di San Sebastiano» si rintanava per meditare sulla morte; altro luogo di «solitudine immedicabile» è la Zambracca, un locale di passaggio ove non solo consumava cene «senza compagnia» ma conservava anche, in un armadio, «un’autentica farmacia domestica». In altre occasioni, per separarsi dal consorzio umano, preferiva immergersi nella visione di film (da Metropolis a Stanlio e Ollio, da La febbre dell’oro ai cartoni animati di Walt Disney) in un cinema privato allestito nel salone. In una nicchia di un bagno nell’ala riservata alle «recluse volontarie» e alle «avventizie» (la Clausura) aveva allestito, per il loro diletto, una Bibliothecula stercoraria; in un altro punto del complesso troviamo uno studio, dal tetro nome di Scrittoio del Monco, tappezzato di libri, in cui sbrigava la corrispondenza.
Gli invitati «prendevano posto nella sala della Cheli, così detta dal nome di una tartaruga morta di freddo o d’indigestione nel giardino e trasformata in un bronzo, piazzato a capotavola quale monito contro la ghiottoneria. L’ariosa Cheli, tutta giocata sui toni vivaci del rosso, azzurro e oro, […] progettata sul modello degli interni lussuosi di transatlantici»… tra carapaci corruschi, libri antichi e sale in stile cabina di nave non sono poche le analogie e i riferimenti a un grande paradigma d’esteta, il Des Esseintes di À rebours!
Infine, lo studio, da lui rinominato Officina, il luogo più luminoso di tutta la Prioria e al contempo «il più inaccessibile»: qui il Vate «scompariva […] per sessioni solitarie di lavoro che potevano durare giorni e giorni»; qui celava i manoscritti e i tomi più preziosi; qui, per i rari ospiti cui permetteva l’accesso, aveva costruito una porticina che li costringeva a chinare il capo per entrare, «in omaggio al suo genio».
Il Vittoriale degli Italiani, via al Vittoriale 12, Gardone Riviera (Brescia)
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Salvatore Quasimodo
Anche abitazioni più umili conservano intatto il loro fascino. A Modica, l’angusta dimora ricavata da «due vani spogli» ove nacque nel 1901 Salvatore Quasimodo, merita di essere visitata anche solo per il panorama che si gode affacciandosi alla finestra: i panni distesi al sole, gli alberi di limoni e le palme, le chiese barocche.
Salvatore, figlio del ferroviere Gaetano Quasimòdo a sua volta figlio di un trovatello cui un segretario comunale ghiotto dei romanzi di Victor Hugo aveva imposto il cognome, visse in questa casa solo pochi in mesi. Braccati dai cataclismi, dalle alluvioni e dai terremoti che devastarono la Sicilia nel primo Novecento e costretti a continue peregrinazioni fra gli scali dell’isola, i Quasimodo dovettero trascorrere alcuni periodi vivendo in «un carro merci sistemato su un binario morto».
Nei pressi della stazione di Roccalumera, il paese dei suoi avi, è nato, nel 2001, il Parco Letterario Salvatore Quasimodo: «le carrozze […] in tutto simili a quelle che il poeta ebbe la ventura di abitare», «il lume fioco delle lampadine elettriche si spande sui listelli di legno rossastro» degli interni. Ogni ambiente del Parco è carico di ricordi: ritagli di giornale, fotografie, una ricostruzione dello studio milanese con «il tavolo, la lampada, le poltrone […] le lauree honoris causa, […] le pagelle». Fuori, lo stridere delle rotaie e, «oltre il binario, la Sicilia vera».
Casa natale di Salvatore Quasimodo, via Posterla 84, 97015 Modica (Ragusa); Parco letterario Salvatore Quasimodo, 98027 Roccalumera (Messina)
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Grazia Deledda
A Nuoro, «nelle strade del rione San Pietro», si diffonde «l’aspro distillato» di una saggezza arcaica, elaborata nello scorrere dei secoli: dalla severa casa natale di Grazia Deledda emergono le verità di coloro che scavarono «al cospetto dei grandiosi arcani della natura e del cuore umano». Nell’imponente abitazione ha sede un museo che ricalca letteralmente le descrizioni degli interni di Cosima, l’opera più autobiografica della scrittrice sarda.
Nel cortile e nelle stanze al piano terra fratelli, sorelle, parenti e servitù si affrettavano nelle loro mansioni: nella cucina, il camino, l’acquaio, il forno, le stoviglie appese e, soprattutto, il focolare al centro della stanza (come in tante altre case in tutta l’isola: da quella di Salvatore Satta, a cinque minuti dal museo deleddiano; a quella di Emilio Lussu ad Armungia nel Sud Sardegna). Visitando i locali ci troviamo di fronte a un vero «arsenale di […] cultura contadina»: lo stesso che la scrittrice, da ragazzina, vedeva intorno a sé quando ascoltava le storie e le leggende dei viandanti che in un angolo della stanza trovavano riparo su una stuoia. «Sotto la lampada a olio della cucina» la giovane conobbe anche il rapimento della lettura: leggeva, alla luce di quel fioco lume, i romanzi di Verga e di Tolstoj, di Hugo e di Balzac, volando lontano dalle «incombenze quotidiane».
Al piano superiore troviamo la sua camera, un ambiente semplice «con un letto, un baule, qualche scansia di libri, un armadio, una scrivania». Tanto sobria e pulita oggi quanto disordinata, rustica e romantica negli «anni verdi» di Grazia, che da bambina minuta era cresciuta, imparando a infrangere «con impavida fermezza» le costrizioni sociali al punto da lasciare una traccia indelebile nella letteratura.
Casa natale di Grazia Deledda, via Grazia Deledda 42, 08100 Nuoro
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Qualcosa s’è scritto, molto sarebbe da aggiungere: il tempo, però, stringe. Consumata questa breve pausa dedicata alla scrittura e alla condivisione, molto presto occorrerà prepararsi per partire alla volta di nuove mete, nuovi lidi, nuove pagine al fine di raggiungere, scoprire, riconoscere e visitare le case di tanti altri scrittori famosi e – perché no? – meno conosciuti.
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