Le carezze pesanti dell’amore. “Con le mani cariche di rose” di Michele Caccamo
Puntata n. 84 della rubrica La bellezza nascosta
«Lo trovassi, ancora oggi gli girerei la testa distante dai tuoi occhi. Ti rapirei e non gli farei avere nessuna tua notizia. Ti porterei al largo nel mare, lontano dalla sua stretta. E allora noi avremmo un fuoco di uccelli e saremmo infantili in quella nuova patria. E io ti terrei nel mio grembo, e mi concorderei con Dio, per fargli rimandare quella sua richiesta. Mi sono stancata presto di guardarti: non eri più mio padre, ti avevano fatto la faccia crudele, la bocca incurvata, la pelle bianca e assetata. Ti avevano reso un inutile uomo morto.»
Talvolta, in alcune circostanze, ciò che ci può rendere liberi, ciò che ci può dare la forza di cambiare e cambiarci, è l’amore, inteso come sentimento assoluto e assolutista, che con le sue passioni e le sue sofferenze è riuscito a scatenare guerre e a donare pace.
Ma l’amore può rendere schiavi, può diventare elemento totalizzante che riesce a oscurare tutto il resto della nostra esistenza, fino a farci male, fino a consumarci organicamente.
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Se poi questo sentimento è coadiuvato dalla gelosia, allora l’esperienza amorosa può ben presto trasformarsi in un inferno, in un continuo sospetto, e l’intero rapporto diventa marcio, privo di vita.
Comprendere le regole dell’amore è complicato, soprattutto perché spesso non si può amare liberamente, per motivi molteplici, per ostacoli della società o personali, e proprio in questi continui movimenti, in questi continui spostamenti dell’amare, l’innamorato resta come immobilizzato, spossato.
Michele Caccamo è nato il 21 dicembre 1959, Con le mani cariche di rose è stato pubblicato dalla casa editrice Elliot.
Siamo a Londra, nel 1908. Una donna è distesa su un divano, in mano un mazzo di violette; a introdurci a lei c’è una voce guida. Come ombre la avvolgono i fantasmi di amorei passati: Violet, Hélène, Kérimé, Natalie. La donna è Renée Vivien, al secolo Pauline Tarn, una delle poetesse più raffinate e trasgressive tra la fine dell'Ottocento e i primi del Novecento. Pagò la sua omosessualità e il suo anticonformismo con la messa al bando da parte della società borghese del tempo.
Michele Caccamo ci racconta una storia passata e lo fa in modo inconsueto, Con le mani cariche di rose non è un romanzo, non nel significato tecnico del termine, è qualcosa di diverso, di libero; con una voce forte e uno stile molto vicino alla poesia, Caccamo ci racconta le ossessioni e le sofferenze, gli amori e le battaglie di Pauline Tarn. Le parole sembrano venire via dalla pagina con leggerezza e la scrittura di Michele Caccamo rende l’intera opera di una bellezza importante.
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«Mi dicevano che ero uscita fuori di senno, quando mi ritrovavano piegata come un arco sui tronchi degli alberi. Cercavo la vena nel legno per stringerla tra le cosce. E oltre me non vedevo nessuno: mi spogliavo nuda, come un vermetto. Sentivo la corteccia diventare acquosa, e un meraviglioso liquido di latte sciogliersi, partendo dal cielo. Mi mettevo a cavallo del ramo, duro quanto una pietra. E sentivo il vento sotto e una foglia carezzarmi il pube, delicata come fosse una fioraia. E pensavo di avere l’anima tra le labbra, e un campo di seta negli occhi; credevo che il mondo fosse liscio, che potesse parlarmi e ascoltarmi, non che potesse comandare la mia libertà. Mi nutrivo, stringendo le ginocchia per far combaciare le labbra nascoste, e il mio cuore aveva la cresta rossa e respirava di gioia; mi aggrappavo con forza a quel ramo, neanche fossi un fungo.»
Un libro che riesce nel suo intento: quello di far rivivere i pensieri e le angosce di una poetessa che a suo tempo fu pioniera. La protagonista di questa storia vive per l’amore, per innamorarsi e lo fa con tanta forza che, nel momento esatto in cui i suoi rapporti s’interrompono, sprofonda in una cieca tristezza che la rende inerme e disillusa. Un percorso di autoflagellazione, un sentiero pieno di buche e inciampi, e tutto il racconto riesce bene perché Michele Caccamo è bravo a condurci nella mente di Pauline, e sapiente nel maneggiare la poetessa, e deciso, attraverso le sue parole, a renderla di carne.
«Quell’uomo mi avrebbe infilata in una buca, pur di non vedermi. Trovò la scuola cattolica peggiore. Le ragazze sembravano imprigionate; le guardavo composte nel loro male romantico, e sentivo un sussulto nel ventre. Violet, non avevano nulla della tua bellezza ma soltanto il peso della loro femminilità. Stavano come il gelo sui fiori, dritte e piatte. Violet, dove sono adesso i tuoi occhi scuri, le tue labbra le tue mani? Perché non torni indietro a portarmi via da queste ragazzine pettorute, perché non possiamo più nasconderci in un angolo e tenerci per le mani?»
Pauline Tarn è morta appena dopo i trent’anni, ma anche se la sua vita è stata breve, fa spavento percepire con che intensità è riuscita ad attraversare l’esistenza.
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Perché è sempre così, è l’amore che in un modo o nell’altro riesce a segnarci, con tagli profondi con carezze pesanti.
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