Le assaggiatrici di Hitler, quando il destino sfugge di mano
Sono trascorsi cinquecento millenni da quando l’uomo ha scoperto il fuoco e ha iniziato a cucinare, lasciandosi definitivamente alle spalle la condizione animale. Per Le assaggiatrici di Rosella Postorino (l’ultimo romanzo della scrittrice calabrese, edito da Feltrinelli), però, il rito della cottura del cibo non rappresenta affatto un riscatto. Le assaggiatrici sono un gruppo di donne privilegiate, in apparenza, perché scelte e addirittura stipendiate in un momento di guerra – e quindi di fame, di ristrettezza o mancanza, di necessità – per cibarsi tre volte al giorno dei piatti deliziosi di un menù variato e abbondante cucinato apposta per loro da uno chef. Una condizione da favola, ancor più che romanzesca, se non fosse perché ai loro quotidiani banchetti partecipa, senza sedersi a tavola, un convitato di pietra che si chiama Adolf Hitler. Il Führer ha affittato le loro bocche e i loro stomaci per riempirli del cibo che lui mangerà solo dopo che queste donne lo avranno digerito: se non moriranno nell’intento, allora anche Hitler potrà sfamarsi, sicuro di non venire avvelenato.
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Il romanzo s’ispira a una vita vera, ma a noi ignota, quella di Margot Wölk, che fu assaggiatrice dei pasti del Führer nella caserma di Krausendorf tra l’autunno del 1943 e la primavera del ‘44 e che solo alla fine dei suoi giorni sentì il desiderio di svelare una professione svolta tra sazietà e annullamento proprio nei mesi in cui la Germania trangugiava già la sconfitta. Postorino farcisce gli strati della storia che Margot Wölk non ha raccontato (è morta poco prima che la scrittrice potesse incontrarla) regalandoci un personaggio, Rosa Sauer, che fruga senza falsi pudori tra le viscere del male e racconta quel che vede senza falsa morale: la sottomissione, la sopravvivenza, l’amore come pura smania, «senza passato, senza promesse, doveri», l’assurdità dell’eroismo, l’egoismo della perdita («Quando perdi una una persona, il dolore è per te stesso»), le colpe, i segreti, «avere paura e avere voglia», tutta la porcheria che siamo, insomma, e che non è legata soltanto a un momento storico di assoluta emergenza ma riguarda ogni epoca del genere umano.
Le assaggiatrici è un libro sul destino che sfugge di mano quando, a pancia piena, satolli, dopo averlo divorato, ci prende il sonno della ragione. Vale per il destino di un popolo, ma da queste pagine emerge amarissimo soprattutto il fato dei singoli, ingovernabile: «Tutte eravamo finite nella tana del lupo senza deciderlo». E lì, in quella tana, la vita scorre al rovescio ed è il miele ad avvelenare e la morte a cagliarsi sotto forma di nutrimento. La paura è già indizio di un avanzato stato di decomposizione, «la paura della morte era una colonia d’insetti che mi brulicavano sotto la pelle» e l’amore è inganno, ma non nel tradimento, solo nell’abbandono: ci illude quando si presenta nella nostra vita dichiarando di volerci rendere felici e poi parte per la guerra e viene dato per disperso. A quel punto la solitudine sono le fauci che c’inghiottono quando non si ha più nessuno da aspettare e più nessuno da perdere. E sempre lì, nella vita capovolta della tana, si diventa amici quando qualcuno ti chiede di rubare per lui.
Il fuoco su cui cuoce il cibo delle assaggiatrici deve essere quello rubato da Prometeo, un regalo avvelenato per l’umanità. E se di giorno l’odio distrugge il fegato (i bombardamenti, le fughe, l’eliminazione degli ebrei, le notizie dal fronte russo, la visita di Mussolini proprio quando Hitler subisce un attentato nella tana in cui si nasconde), di notte l’amore del nemico (che raschia con le unghie la finestra e si rotola nel fienile) lo ricostruisce con un’impazienza che sembra quasi amore. Un amore a cui si crede di non avere più diritto, in «un’epoca amputata, che ribaltava ogni certezza e disgregava famiglie, storpiava ogni istinto di sopravvivenza».
Storpiare. Non è un verbo scelto a caso. Perché l’istinto di sopravvivenza non si spegne insieme alle luci del coprifuoco. Si deforma, si assopisce senza esaurirsi e poi esplode dichiarando al mondo che sopravvivere non basta più, che si vuole finalmente vivere.
C’è un’energia selvatica, in queste donne, e sta nel ventre di ognuna di loro. Non è solo per il cibo che sono obbligate a ingollare e che miracolosamente le mantiene vive giorno dopo giorno (una tensione che il lettore sperimenta nelle proprie budella, anche grazie a una scrittura scandita come il fuoco di una mitragliatrice a raffica breve): è per i figli che hanno generato, per quelli che sperano di mettere al mondo e per quelli di cui attendono il ritorno. Per quelli perduti nel bosco. E per i figli che poi dalla guerra magari tornano, ma più indifesi di un neonato da accudire. È qui, tra le pieghe della carne di dieci donne, che si aggrappa la vita, e resiste ai rigurgiti del dolore e al perenne tentativo di sottomissione che il mondo intero esercita su di loro.
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Sembra che nessuno sappia o possa perdonarsi, in questa storia di uomini assenti, dispersi o nascosti e di donne che sentono di esistere un po’meno, se lo sguardo di quegli uomini non si posa su di loro. È un continuo regolamento di conti col desiderio, ma non finisce in trincea, si libera dalla sottomissione sul tavolo di un refettorio, nella luce appena rischiarata di un cinema, nell’ufficio o lungo il corridoio di una caserma. Eppure la tenerezza arriva; bisogna saperla cogliere nelle ultimissime righe, non è un banchetto a cui strafogarsi ma un piatto bollito e condito con l’olio che ristora lo stomaco dopo lunghi eccessi. È il fuoco di Prometeo che ha scontato la sua pena e si fa focolare, ed è al calore di quel senso di intimità creduto disperso che finisce la guerra, tutte le guerre, e Le assaggiatrici di Rosella Postorino ritornano umane.
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