Lavoratrici ridotte a merce – Il braccio morto di Maria
Maria non è una bracciante straniera, ma italiana. Maria è di Ginosa, nel tarantino, e ogni notte parte alle quattro per raggiungere la provincia di Brindisi. Raccoglie ortaggi all’aperto e in serra, ma ha un problema al braccio destro. Secondo i medici la circolazione tende a fermarsi, il sangue le diventa flemmatico e le formicolano le mani dalle dita ai polsi.
«Secondo te, perché?», mi domanda quando mi ha esposto il suo male.
Alzo le spalle. Che ne so? Può essere una cosa congenita, le dico, ma lei fa di no con la testa.
«La campagna», risponde.
Le giornate di Maria non hanno fine. Sono elastiche, flessibili: dalle dieci alle dodici ore di raccolta, con le mani protese e la schiena curva. A volte usa una mascherina, perché i campi sono pieni di veleni.
«E la mascherina te la dà il padrone?»
«No, me la compero io. Tutto mi compero io: i guanti, la maschera, pure l’acqua per bere, che d’estate qua si schiatta. E quando fa caldo il braccio mi muore che lo devo tenere con l’altro»
«Ma dai medici ti sei fatta vedere per bene? Sei andata da uno specialista?»
Mi dice che secondo il medico che ha consultato dovrebbe esserle riconosciuta una forma di invalidità parziale, ma lei non raggiunge mai un numero di giornate legalmente dichiarate tali da poterla considerare una lavoratrice a tutti gli effetti. Diciamo che si accontenta di lavorare a nero da una vita, senza un contributo e senza prospettive. Non è la sola, perché tutto il sistema agricolo italiano è pieno di lavoratrici ridotte a merce sottocosto.
«Devi andare da un sindacato», le suggerisco.
«Quale sindacato?», risponde alzando un braccio, quello sano. «Se ci vado, il capo mi fa fuori e non vedo più il lavoro. Poi il sindacato è come se non c’è, che ti credi. E quando c’è sono solo casini»
L’abitudine a non farsi tutelare è sempre più diffusa, lo racconta la debolezza contrattuale e culturale dei braccianti. Scivolano nell’abisso dell’assenza di diritti, a volte senza nemmeno conoscerli.
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«Sei sposata, Maria?»
È timida. Abbassa la testa e arrossisce.
«Sì, ma mio marito fa il meccanico. Diciamo che ci accontentiamo perché non possiamo scialare. Siamo persone oneste, non vogliamo il di più, ma quello che abbiamo non basta mai»
Maria ha anche due figli. Entrambi hanno mollato la scuola. Uno dei due lavora in campagna, per lo stesso caporale della madre. L’altro ha solo tredici anni, e l’anno prossimo andrà anche lui nei campi.
«Fagli prendere la licenza media, Maria», la esorto.
«Non è buono. Non ne vuole sapere. Se non va a lavorare me lo rovinano. A Ginosa è pieno di delinquenti…»
Anche adesso abbassa la testa, stretta tra costrizioni sociali e impedimenti culturali. Maria rialza il capo e mi guarda.
«Tu hai studiato, lo sai che per quelli come noi…»
Qui la fermo.
«Siamo tutti nella stessa barca, Maria. Chi più chi meno viviamo tutti allo stesso modo», la correggo.
Lei mi guarda per qualche secondo, poi si tocca il braccio, quello malato, e mi fa: «Ma tu non ce l’hai questo braccio morto. Io sì, e me lo devo piangere ogni minuto».
Non aggiunge altro, né io oso dire qualcosa. Maria mi saluta e se ne va lungo una via deserta e buia di Ginosa.
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