Laboratorio di racconti - 3 (Graziano Delorda)
Dopo aver sospeso le pubblicazioni in attesa di uno scritto che convincesse l'intero comitato di lettura vi proponiamo il racconto di Graziano Delorda, Un buco nella sedia. L'attesa a volte premia. Abbiamo creduto in questo racconto soprattutto colpiti, al di là di una trama forse un po' sospesa, dal suo nichilismo indolente e dallo stile non privo di grazia narrativa.
Se desiderate mettervi alla prova, inviando un vostro racconto a Sul Romanzo, leggete il post dedicato.
Buona lettura.
Il Laboratorio Racconti è a cura di Sara Gamberini, Geraldine Meyer, Alessandro Puglisi, Giovanni Ragonesi.
***
Un Buco Nella Sedia
(PAURA DI ESSER VISTO)
Era un momento di stantie riflessioni e non avevo una trama ben delineata in mente, riuscivo solo a ricordare sprazzi di un venerdì sera passato come al solito con Gregorio a zonzo per la città, prima che, esattamente una settimana dopo, ritrovassero il corpo del mio amico in mare con un paio di forbici conficcate in gola.
Quel venerdì, l’ultimo passato assieme, avevo sentito Gregorio scherzare con il ragazzo dietro il bancone, intercettando distrattamente parte di un discorso privo di significato apparente:
«Secondo me sei tu a seguire il mio look», aveva detto Gregorio rivolgendosi al giovane barista.
Furono queste parole a farsi strada in me ore dopo, lacerarmi i nervi come elastici scottati dal sole, rincorrermi giorno e notte su di un carrello vuoto rubato ad un supermarket infestato di zombi.
Proprio così, un noioso venerdì sera come tanti altri custodiva il segreto di un codice cifrato:
“Secondo me sei tu a seguire il mio look.”
Quale dannata ossessione poteva portare l’uno a seguire il look dell’altro?
Ricordavo la camicia blu con cravatta rosa del ragazzo e di Gregorio, i capelli radi e freschi di macchinetta, del ragazzo… e di Gregorio, le basette simmetriche e adiacenti le orecchie. Quella sera c’era molta confusione nel locale, il volume della musica era troppo alto e le birre si scaldavano con estrema facilità. Forse era Gregorio a copiare il barman, magari avevano fatto una stupida scommessa su chi si fosse arreso per primo, o semplicemente si rilanciava di volta in volta e il venerdì era serata di verifiche?
Gregorio era molto più alto dell’emulo e il suo viso raggelava gli animi più sensibili ma, da dietro il bancone, con quelle particolari luci azzurrine, la somiglianza tra i due aveva acquistato una concreta conferma, almeno nei miei confusi ricordi. Ancora di più, Gregorio era un’anima senza fondo, assetata, imprevedibile, proprio quando credevi di averlo conosciuto bene, da mesi si stava evolvendo in qualcosa di strano senza che io riuscissi a prevederne la fine.
Per giorni immaginai plastiche facciali, sortite notturne dell’uno nei luoghi più inviolabili per l’altro, congiungevo la mano destra a quella sinistra e ne ricavavo i loro due volti fusi come cubetti di ghiaccio in un bicchiere di bourbon. La maledizione era tornata e andava affrontata senza compromessi: appunti su pacchetti di sigarette, cerotti, biglietti dell’autobus, bastoncini di liquirizia succhiati come tette africane, le mani blu d’inchiostro, la sfida al sonno.
Lo scrivere andava però a rilento, stentava dietro le mie pause, mancanze, avvertimenti. Volevo sviluppare un racconto sull’intrecciarsi di reciproche ossessioni, una storia a riflesso ma senza protagonisti. Mi perdevo così nell’astrattezza di una trama non presente, ogni parola resisteva solo pochi secondi, aggiungevo sempre più contorni e spesso mi voltavo indietro a quell’ultimo venerdì.
Avvilito dalla vorticosa grandezza che stavo sperimentando, scostavo le mani dalla tastiera, allungandole sui fianchi della sedia, chiudevo gli occhi e non so cosa. Restavo in quella posizione da copertina per delle ore, nemmeno una sigaretta, nessun prurito, un Siddharta del terzo millennio. L’unica distrazione che mi concedevo era l’infilare il dito indice della mano destra dentro un foro, nella sedia sulla quale ormai vivevo da giorni. Questo buco si trovava esattamente nell’intersezione della gamba con la seduta, era più piccolo del mio indice e profondo non più di tre, quattro centimetri. Cercavo di non pensare a Gregorio e al suo clone, sperando che il racconto si scrivesse magicamente da sé, accompagnavo il mio dito dentro quel buco, sorprendendomi di quanto fosse ben levigato il legno; scavavo, contorcevo, cambiando l’indice con il medio fino ad osare il pollice. Il disagio di essere di più rispetto a tale profondità, l’entrarci a stento e poi spingermi ancora più in fondo fino ad urtare l’unghia contro il legno, l’uscirne di scatto sentendomi finalmente libero di ricominciare ancora una volta e con maggiore entità... mentre accadeva tutto ciò scomparivano Gregorio, il ragazzo del bar, i loro gesti riflessi, lo scrivere, restava solo quel buco nella sedia, protagonista involontario della necessità di stupire e stupirmi a tutti i costi. Iniziai così a concedermi quel meraviglioso supplizio anche lontano dallo schermo del pc: libero dall’aggressione della maligna identità di Gregorio, mi abbassavo per vedermi entrare dentro, ne misuravo il vuoto, taccheggiandomi il mignolo appena uscito… oh che perfezione, liscia, accogliente!
Non era difficile rendersi conto del contrappasso presentatosi proprio nel momento in cui era tornata in me l’ecchimosi della scrittura: i mesi d’assenza avevano assorbito tutti i miei incubi, curandoli così bene che adesso non avevo più bisogno d’alcuna storia, e il modo di avvicinarmi alla sedia era l’evidente prova di quanto fossi profondamente avvinto da tutto ciò. Avevo lasciato fino a sette secondi il palmo della mano sopra un fiammifero acceso, per non parlare di aghi, lame e taglierini usati negli anni come muse, adesso però il corpo non mi interessava più, avevo scoperto verità a me prima nascoste attraversando un deserto lungo di pochi centimetri, dovevo solo portare a termine il lavoro iniziato.
C’era chi passava decenni in India a seguire il proprio karma, chi condiva la propria vita di Lsd e sgargianti cappelli, chi stava bene così, perché “tanto a che serve?”, io invece avevo acquisito la consapevolezza che avrei dovuto controllare fori, scanalature, uniformità e simmetrie più o meno volute, così, solo per il gusto di farlo. Ed il mio indice continuava a scavare, martoriare, allargare, giorno dopo giorno, e Gregorio scompariva.
Sentivo l’esigenza di farmi piccolo per poter sparire dentro quel buco, al buio, inglobato nel destino di una sedia di legno, e ogni istante passato con le mie dita intrappolate lì sotto alimentava in me un irrefrenabile sentimento d’abbandono; nessuno me lo poteva togliere, lo avevo scoperto io e adesso spettava solo a me preservarlo da presenze indiscrete.
Come ho detto, di Gregorio e del suo emulo più nessuna traccia, sarebbe stata una storia come le altre, qualche buona frase sparsa qua e là e molta punteggiatura, un’ode al bricolage catartico dello scavare, chiudere, forzare ed estrarre forse, ma l’avrei scritta un’altra volta.
Più ficcavo, possedevo, ostruivo quel dannato ingresso più mi caricavo di odio e violenza senza capire perché: i denti facevano scintille, le dita libere sulla tastiera ormai livide ed indolenzite dalle continue penetrazioni, il minimo sussulto in casa era la sirena dell’ambulanza giunta per me, ma troppo tardi. Toglievo il dito dal buco e rabbiosamente urlavo:
«Allora, come si sta senza? Già la senti la sua mancanza? Terribile vero?»
Un’unica risposta: quel buco non sarebbe stato tutto mio se prima non avessi finito di scrivere la storia di Gregorio.
Tornai a scrivere con maggiore ostinazione, ma sullo schermo del computer apparivano visioni d’agguati e sgozzamenti, il mio scarponcino piegava colli sconosciuti, il volo dell’antennista assieme alla sua parabola del cazzo. Giorni di gloria stavano incominciando, lo sentivo, la liberazione di un’esistenza valeva il gioco, insomma dovevo farlo, il buco me lo chiedeva.
Prima di uscire presi forbici e rasoio e alla meno peggio mi rasai a zero, lasciando le basette adiacenti le orecchie così come facevano Gregorio e il suo amico barista. Camicia blu con cravatta rosa…
Scolai velocemente un caffè freddo e due bicchieri di Ferrarelle e mi sedetti sulla solita sedia, aspettando col dito dentro. Ricordo anche che era un venerdì sera, che Gregorio avrebbe ritardato un paio d’ore e che la punta delle forbici continuava a graffiarmi la coscia da dentro la tasca dei pantaloni.
Graziano Delorda nasce nel novembre del 1972 a Messina.
Da metà degli anni ’90 pubblica racconti su riviste, webzine, raccolte e quotidiani nazionali. Nella primavera del 2010 la Pungitopo Editrice dà alle stampe il suo primo romanzo dal titolo Pace, omonimo villaggio di pescatori nel messinese nel quale sono ambientate le irriverenti avventure del piccolo protagonista.
In attesa di ben piazzare il suo secondo romanzo, è già prevista per la primavera-estate 2011 l’uscita, sempre per la Pungitopo Editrice, di una raccolta di suoi racconti brevi, scritti tra il 1998 e il 2010.
Attualmente vive a Messina, ma non a Pace…
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