“La zecca e la rosa” di Maurizio Maggiani, un almanacco delle creature
L’ultimo romanzo di Maurizio Maggiani La zecca e la rosa uscito per Feltrinelli quest’anno è, secondo l’autore stesso, un «almanacco delle creature». Maggiani, un po’ come il Noè della letteratura italiana, mette in fila le creature più disparate: s’inizia con l’abete natalizio e si finisce con lei, la zecca assassina. E nel mezzo ci sono, tra tutti: aringhe, basilico, cavalli e calle, edera e fichi, ghiri, iris e lavanda, merli e papaveri, una quercia e delle rane, il sambuco, la triglia e una volpe. A ogni creatura con ripartizione assolutamente democratica – tanto quanto è Madre Natura stessa – si dedica una pagina, per poter dire su lui o lei niente di meno, niente di più di quanto basta. Tra civette e coccinelle Maggiani ritrae il lavoro della terra, il contatto con ciò che più ci appartiene come la comunione con gli altri esseri viventi, senza fare alcuna distinzione tra animali, piante, fiori e frutti. E la grande principessa è lei, la rosa, il solo fiore a cui si dedicano più di due pagine. Bocciolo nobile e divino del mese di maggio, che nella penna di Maggiani diventa anche la merce di scambio del senegalese alla ricerca di qualche spicciolo.
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La zecca e la rosa è sapore di primavera e tripudio di colori, suoni, odori. In un gioco sinestetico Maggiani riesce a riempire gli occhi e, in alcuni casi, a suggerire dei sapori. Il suo è un richiamo a rallentare e come dice lui stesso nel booktrailer a «guardare, ascoltare, capire cosa ne viene di buono o di cattivo da ogni creatura» o, come avrebbe detto Latouche ad avviarsi all’arte della decrescita. Nel suo almanacco delle creature Maggiani sembra invitarci sottovoce a riappropriarci del contatto con la Natura, a riconoscere e rispettare le sue Leggi anche quando sono crudeli, a riscoprire arti antiche come l’orto, gesti rituali semplici come annaffiare la terra asciugata dal sole in cui si racchiude, però, l’essenza delle piccole cose.
Maurizio Maggiani si è auto-definito principe degli orti, barone dell’uva fragola, re dei fossi e granduca dei pesciolini. Genovese di nascita, è nato nella casa costruita da suo nonno. Da giovanissimo andò al lavorare all’Olivetti ma presto capì che la sua strada era un’altra. È stato fotografo industriale, ha girato film pubblicitari per gli industriali del marmo e gli stagionatori di prosciutti, e persino il mercante di arte contemporanea. «Nell’85 mi sono comprato, firmando trentasei cambiali, un computer Apple, il primo che si fosse visto in circolazione, e con quello ho imparato a scrivere. Perché scrivere su quell’apparecchio mi dava un gran piacere tattile e visivo, perché ho scoperto che potevo costruire parole, e con le parole pensieri, che erano immagine composta così come si compone un’inquadratura fotografica, o cinematografica».
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La zecca e la rosa è almanacco ma anche abbecedario naturalistico, raccolta di racconti, componimenti poetici sotto forma di prosa e libro illustrato. Uno dei suoi fiori all’occhiello sono senza alcun dubbio i disegni di Gianluca Folì, a cominciare da quello in copertina dedicato ai papaveri. Le sue illustrazioni – che sembra quasi riduttivo definire tali – hanno tutto l’aspetto di acquarelli ancora bagnati, dal tratto sottile e delicati. Forme sinuose, esserini eterei, perle nascoste tra le pagine che si vorrebbe quasi incorniciare.
Leggendo La zecca e la rosa di Maggiani torna in mente il famoso poeta cileno Pablo Neruda e in particolare le sue odi al pomodoro o al carciofo, specie quando lo scrittore genovese paragona le mimose ai capelli di Marilyn Monroe e le definisce «smargiasse che friggono gli occhi», quando appella i papaveri «segnaposto dei marciapiedi, sentinelle dell’ineffabile», e nel descrivere i tulipani afferma che sembrano «paramilitari raccolti a testuggine».
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