La vita precaria di una giovane donna. “Il pieno di felicità” di Cecilia Ghidotti
Il pieno di felicità di Cecilia Ghidotti, edito da minimum fax, parla di una donna e di chi vuole essere, parla della generazione perduta; quella dei trentenni espatriati dalla loro terra perché senza futuro, alla continua ricerca del senso della felicità.
Del libro colpisce il realismo dei temi, così come lo stile deciso, conscio delle proprie potenzialità, che delizia per contrasto con la caratterizzazione della protagonista, Cecilia, perduta in un’esistenza fatta di precarietà.
Il bilinguismo crescente della protagonista expat viene riportato con fedeltà, in una versione meno immediata di quello del più noto agente Keller di Don Winslow, ma molto caratterizzante e in un contesto del tutto diverso, quotidiano, alla Raymond Carver. Sullo stile niente da aggiungere, si percepisce che ogni dettaglio è voluto. La trama a tratti prende spunto dallo schema di Propp, con una variazione interessante nel colpo di scena finale, che dà senso al romanzo. L’arte di raccontare una storia, forse appresa in una nota “Scuola” di Torino, le permette di rendere partecipe il lettore dei drammi e delle scelte di Cecilia.
“Ho tempo, ancora tempo. Poi abbiamo compiuto trent’anni. La prima è stata Roberta, ma Roberta non conta: lei ha sempre avuto desideri più precisi dei miei. A quindici anni aveva scritto in un tema «voglio avere la pancia, voglio essere mamma».”
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La sovrapposizione tra personaggio di finzione e la biografia dell’autrice è totale: nome, origine, esperienze. L’autrice diventa testimonianza viva delle sue parole, le carica di maggiore concretezza. Tutto nasce con Abbiamo le prove un progetto che sembra ispirare il libro: solo storie vere, una donna alla volta. In questo caso Cecilia che, come tanti giovani adulti, deve confrontarsi con le scelte più importanti della vita: lo studio, il lavoro, la famiglia, la casa. Si trasferisce in Inghilterra nella grigia Coventry, il cui centro storico è il luogo mimetico delle emozioni della ragazza: la cattedrale sfregiata dalle bombe è stata sostituita da un Ikea e gli edifici, trasformati da un’architettura razionalista e brutalista, diventano la metafora sottile della società del mondo-romanzo. Dove ogni luogo deve adempiere a una funzione per le persone che lo attraversano e ogni persona deve adempiere a una funzione per attraversarlo. Al negozio premaman una non-mamma è fuori posto, così come nell’ufficio di Londra una provinciale precaria è fuori posto. Un italiano, con la Brexit alle porte, è fuori posto in tutta l’Inghilterra.
«Io credevo che a un certo punto avessimo stretto un patto che prevedeva che non saremmo mai tornati nei posti dai quali avevamo deciso di andare via. La cosa giusta per diventare adulti era rinunciare ai privilegi che derivano dal vivere in luoghi familiari.»
La generazione Erasmus non doveva diventare il nuovo (illusorio) sogno americano. Noi dovevamo essere quelli che fanno esperienza delle altre culture, quelli che dallo scambio ne guadagnano un valore aggiunto per tutta la comunità. Il pieno di felicità promesso dalla società.
L’altra faccia della medaglia è che, parlando d’affari, le leve del successo non sono poi tante: istruzione, famiglia, amici e prestiti. Le speranze nella prima opzione svaniscono al solo pensiero dell’immobilismo delle università italiane e delle raccomandazioni. Le banche falliscono già senza il nostro aiuto, per cui la soluzione diventa emigrare, perdendo le altre leve che rimangono. C’è chi è disposto a farlo.
«A vent’anni, quelli che ne avevano avuto la possibilità avevano barattato l’appartenenza a un posto con la prospettiva di fare esperienza dell’altrove. Noi eravamo cosmopoliti, europei, solidali, antirazzisti, pronti a pensare globally ma agire locally. Avevamo letto tanti libri e visto tanti film giusti. Noi, intimamente convinti di essere meglio di quelli che restano a vivere nel posto in cui sono nati, avremmo visto luoghi diversi, ci saremmo aperti con fiducia al mondo che sicuramente sarebbe stato migliore della nostra provincia di origine. Poi dovevo essermi distratta e i primi iniziavano a tornare.»
Senza leve diventa difficile realizzare quelle tappe obbligate che sono le aspettative della società e dei nostri genitori, da compiere in un preciso ordine stabilito: la laurea, l’indeterminato, la casa, il matrimonio e, infine, i figli. Dopo la prima, il resto diventa un caos. Una giravolta di discorsi, affitti in case improponibili alla mamma, contratti part-time a progetto, post-doc, lingue straniere, coppie con figli, convivenze, etc. In una parola precarietà. Perché se un lavoro non lo trovi da qualche parte devi pur vivere e, se l’amore c’è, non si può nemmeno restare sotto il tetto dei genitori. Oppure sì, dipende dalle finanze anche quello, ma il punto è che il resto viene messo in pausa. Renderlo definitivo significherebbe ammettere il fallimento di non essere riusciti a compiere le tappe nell’ordine “giusto”. Fa paura, come la coppia di amici che aspetta un figlio e vuole festeggiare:
«Cosa brindi, Michele, svegliati! Non hai un lavoro.»
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Il rischio è quello di ciondolare per la vita, essere additati come fannulloni, inetti. L’insuccesso è una nostra responsabilità: non si è fatta la laurea giusta, non si è abbastanza proattivi, si fanno confronti con gli altri, si incolpano gli altri, si perde tempo in viaggi di piacere e social network. Insomma, non si ha un progetto di vita, non si hanno le idee chiare per raggiungere il tanto agognato successo. “Avere successo” cosa significa? Non è forse qualcosa che ognuno deve stabilire per sé e per i propri obiettivi? In teoria sì, ma la vita è imprevedibile. Il pieno di felicità è essere chi si vuole essere e vivere dove si vuol stare, con a fianco le persone che abbiamo scelto per noi.
Per la prima foto, copyright: Cindy Tang su Unsplash.
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