“La vita è un ballo fuori tempo”, o l’elogio delle passioni non-sincronizzate
In alcuni romanzi l’ansia di rivoluzione scorre sotterranea. In La vita è un ballo fuori tempo di Andrea Scanzi (Rizzoli) no: la rivoluzione è un’ansia esibita, è un’attesa, ed è puntualmente delusa.
I tempi che corrono sono quelli che sono, con un premier ridicolo persino nel nome, Tullio Stelvio Bacarozzi, un ministro che scandisce parole di speranza e fiducia per sciorinare un po’ di retorica («La propaganda bacarozziana aveva davvero fatto un gran lavoro. Persino i disoccupati erano contenti di esserlo»), e un Paese che non è pronto a puntare un soldo su uno stagista venticinquenne ancora un po’ sognatore. Il centro catalizzatore di un mondo che va a rotoli è il protagonista Stevie Vaughan. Questo quarantenne appesantito con una calvizie incipiente abita a Lupinia, è un single disperato, vive col nonno Sandro, e fa il giornalista nella redazione del pessimo «La Patria». Gli ingredienti per un’ennesima storia di fallimenti sono tutti disposti sul banco, fin dalle prime pagine.
Ma se nelle parti iniziali questo senso di sconfitta (delle aspirazioni, dell’amore, della vita) si riesce solo a subodorare, a un certo punto emerge in modo dichiarato, e diventa il suono prepotente dell’intera storia. Che dunque, più che muoversi, anche quando si parla di voler cambiare le cose, e volersi cambiare, rimane un po’ impantanata in un’apatia e afasia fastidiose, o si trascina per lunghe situazioni ed episodi non-sense.
Compaiono, poco a poco ma affastellandosi presto sullo sfondo, tanti personaggi-macchietta. A partire dallo Stevie protagonista, certamente, ma passando subito al nonno Sandro, che è un novantenne più attivo e in forze del nipote, al direttore del giornale, ignorante senza riscatto, alla ex di Stevie, una bellissima bravissima fortissima giornalista, che è riuscita a sfondare lasciandosi dietro la città d’origine e i suoi abitanti.
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Ogni tanto subentrano figure rapide di donne o filosofi attempati che intrattengono con il protagonista dialoghi brillanti, divertenti, mordaci – dietro cui è facile riconoscere il tocco (finalmente) del giornalista Andrea Scanzi che si ascolta in tv, che si legge con piacere e ironia.
In vari punti viene lasciato spazio al personaggio più interessante e riuscito del libro, Rayban Seganti, un giovanissimo giornalista ancora pieno di entusiasmo e soprattutto di ideali, che collaborerà alla rivoluzione tutta tecnologica degli arzilli nonni del Paese – coloro che danno vita, bisogna ammetterlo, al momento più esilarante del romanzo. E in altri punti i riferimenti esterni, a canzoni, piccoli jedi e filosofi come maestri di vita, rivelano una scrittura piena di cose da dire.
Ma sono solo sprazzi veloci. Perlopiù, su Stevie grava un senso di resa che si manifesta dappertutto: nelle canzoni che ascolta (Terms Of My Surrender), nel cibo che mangia, nei pezzi che scrive, nei caffè che beve.
Anche se, paradossalmente, proprio in questi caffè amarissimi e bruciati che ingolla ogni mattina sempre nello stesso bar, ogni giorno da sei anni, si annida il seme della sua personale rivoluzione: «Stevie percepiva che Layla potesse essere non soltanto placebo ma anche molla e scintilla, evento tellurico in grado di sparigliare la pianura grigia della sua esistenza». Proprio nei caffè che Layla (nome inventato, in omaggio a una canzone), ragazza dai capelli “strani”, gli serve, il quarantenne arrugginito e disilluso ritrova un motivo, un pretesto, un desiderio per tornare a vivere – ché il suo è un sopravvivere, e vivere è tutta un’altra cosa.
Scanzi si aggrappa a questa vicenda sentimentale solo suggerita – forse nel finale davvero emergente – per raccontare una piccola storia di riscatto. Eppure, nonostante il bellissimo tratteggio della figura di Layla, e una lettera d’amore originale e sfacciata nella sua sincerità, in definitiva ciò che rimane del racconto è un senso di inconcludenza: pervasiva, insormontabile, e non di Stevie soltanto, ma di un’intera generazione. Ma quello che più importa è che la stessa sensazione finisce per gravare sull’intero romanzo, sul libro e la sua struttura, sulla narrazione: un po’ strascicata, un po’ slegata, un po’ sconclusionata. Probabilmente è proprio quello che avrà voluto suggerire Scanzi, o chi per lui l’abbia scelto, in quel titolo che esalta le passioni non-sincronizzate: La vita è un ballo fuori tempo.
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