La vita è stare alla finestra di Enzo Biagi
La vita è stare alla finestra di Enzo Biagi, uscito per Rizzoli, è una sorta di ragionata biografia postuma. Postuma, come voleva il celebre giornalista italiano scomparso nel 2007. Ma è, soprattutto, tra i lavori che ci si presentano in questi anni di analisi storica del Novecento passato, quello forse più genuino, perché smentisce la tendenza a storicizzare tutto e rende attuali personaggi e accadimenti che hanno modificato nettamente la storia italiana.
Va detto, innanzitutto, che siamo di fronte a un lavoro utile per la correttezza morale dell’autore. Di Biagi, forse, ci manca proprio questa etica dell’utilità, che lui sapeva moderatamente inserire nei suoi articoli e libri.
Il libro è una rassegna ragionata della sua carriera dentro il sistema dell’informazione e dell’opinione italiana. Un Biagi che nasce nella provincia e che si forma dentro la storia. Il suo impatto con la storia avviene con la Resistenza, come egli stesso ci ha detto, che è un momento di unificazione e di formazione insieme. Aspetti, questi ultimi, sovente dimenticati nelle commemorazioni antifasciste. Biagi trova in quella esperienza storica indimenticabile il senso di un’azione intellettuale ponderata, meditata, per reazione alle scelte spesso irruente della guerra partigiana. È un metro, la Resistenza, per la vita che sarà. Una misura per il resto della sua vita di giornalista, di cronista del secondo Novecento italiano.
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Il libro, infatti, approda subito al racconto dell’esperienza giornalistica come terreno di conoscenza della realtà. Il giornalismo come missione della ricerca di una verità non scontata, non patinata, viene fuori molto nettamente dalle pagine della biografia. La verità dello stragismo e del terrorismo, per esempio, che hanno mietuto vittime tra i colleghi di Biagi, che hanno tentato di fiaccare il giornalismo italiano con l’intimidazione e con il piombo. Anni ricordati con pathos e grande capacità di lettura dei rapporti di forza in campo. Senza tralasciare i particolari che hanno fatto, degli anni di piombo, un’epoca oscura per il Paese. Quindi, in seguito, i rapporti di incomprensione con pezzi della politica, soprattutto nel lavoro dentro la televisione. In questa parte del libro si avverte una ben dosata ironia nel racconto del rapporto con i potenti. Con gli editori, con gli industriali della conoscenza. Con questa ironia Biagi rivela i caratteri di una classe imprenditoriale non del tutto scomparsa (Berlusconi c’è ancora) che ha fatto dell’editoria uno strumento di contesa ideologica e politica, spesso a danno della professione giornalistica. Uno strato di borghesia poco illuminata di cui Biagi non biasima direttamente l’attività, perché ne fa un racconto di stile nazionale, un denso affresco del sistema italiano del potere della prima e della seconda repubblica.
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Ci sono infatti due epoche attraversate dalla penna di Biagi in questa biografia alla finestra. Due secoli brevissimi che fanno il secolo italiano per eccellenza. Quello al quale ancora allude la politica contemporanea, con l’economia. Il secolo del boom, dell’ascesa, del consumo come distrazione di massa, ma anche quello del declino sociale e morale, dal quale non c’è mai risalita facile. Biagi, insomma, è riuscito a restituire una traccia per la lettura del presente, con le sue parole postume. Nella sua ultima fatica di acuto osservatore c’è il racconto di quello che siamo diventati e del perché: un Paese che dovrebbe ogni tanto mettersi alla finestra e osservarsi per capirsi. Come Enzo Biagi sapeva fare meglio di chiunque altro.
Per la prima foto, copyright: Noah Silliman.
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