La vita di un uomo come tanti. “Nessun cielo” di Pierre Demarty
Immagine dopo immagine Pierre Demarty costruisce un universo di scatti che inquadrano la normalità della vita di un uomo come tanti, d’un tratto travolta da un inarrestabile turbamento: è il racconto lungo Le petit garçon sur la plage pubblicato in Francia nel 2017 ed edito per la prima volta in Italia a marzo di quest’anno da il Saggiatore, con la traduzione di B. Alessandrio D’Onofrio e con il titolo Nessun cielo.
Senza la guida di nomi propri riferiti a persone o luoghi, il lettore viene sospinto dallo scorrere di una prosa incantata, melodica, a tratti struggente. La narrazione infatti si va costruendo su particolari chiave che preparano lentamente alla storia di un cambiamento emotivo. E tutta questa storia trova il suo perché dentro un’immagine, l’unica che Demarty fa corrispondere a un momento preciso, la mattina del 3 settembre 2015.
«Nell’immagine si vede il mare, un angolo di cielo, e un bambino, sdraiato su una spiaggia di sabbia grigia, tutto qui. […]
Il corpo è raccolto su se stesso, sdraiato di pancia, bacino leggermente sollevato, gambe leggermente flesse. La testa è bagnata dall’acqua. La pelle è bianchissima.
È la foto di un cadavere.
Un bambino di tre anni è annegato, ieri, in mare.
Tutto qui.
È la mattina del 3 settembre 2015.»
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Il riferimento è ad Alan Kurdi, il bambino siriano rinvenuto sulla spiaggia turca di Bodrum dopo essere salito con i genitori, il fratellino maggiore, «assieme ad altri, a molti altri» su un gommone che a malapena poteva accogliere otto persone, per cercare di raggiungere un’altra terra sotto un medesimo cielo: la Grecia.
Demarty non scrive una parola sull’infausto evento, non lo specifica, perché forse quell’immagine da cui origina la narrazione, rivelata più avanti dall’autore essere una fotografia, racconta un fatto che può accadere in ogni tempo e in ogni luogo, senza connotazione alcuna e sotto nessun cielo in particolare: se è vero che l’obiettivo della macchina fotografica punta sul piccolo corpo del bambino, nel momento dello scatto, tagliando fuori il cielo sopra di lui e lasciando apparire soltanto il colore della sabbia e un lembo di costa, è pur vero che il cielo c’è ed è lo stesso per tutta l’umanità; se un pezzo di questo cielo si vedesse sopra quel bambino sarebbe identico a quello di tutti gli altri bambini che nascono per continuare a vivere in mezzo alla stessa umanità.
Ma la cosa che accomuna quest’ immagine di vita reale a una seconda che scopriamo leggendo tra le pagine di Demarty non è il cielo in quanto tale ma lo sguardo del protagonista che, come quel cielo, si staglia su entrambe:
«Quel che le rende profondamente simili, tuttavia, è qualcos’altro. Quel che le rende indissociabili è altrove, al di fuori di esse. Non nelle immagini stesse […]. Ma nel suo sguardo, nello sguardo di lui.»
L’uomo, protagonista del racconto, guarda osservando, in un altro momento della propria, cadenzata vita, l’immagine di un secondo bambino sulla spiaggia, questa volta non più reale e istantaneo ma cinematografico, quindi in movimento. E da questo istante si insinua nel suo animo il germe del turbamento:
«È un uomo mite, modesto, un uomo che con il mondo e con la propria vita intrattiene un rapporto che non va oltre quello del buon vicinato. Un uomo al limitare degli avvenimenti […]
È un uomo che non ha alcuna ragione di mettersi a piangere all’improvviso»
Eppure piangerà, dieci pagine più avanti, con quel filo di lacrime che è riuscito a farsi strada tra il cemento del suo ventre e l’indifferenza della coscienza; piangerà perché quel bambino di poco meno di un anno è rimasto completamente solo sulla spiaggia, senza genitori né cane, senza individui intorno. Solo, con il suo peso che lo costringe sulla sabbia e lui che non sa ancora alzarsi in piedi; solo, urla e si dispera. L’immagine cinematografica gli restituisce un senso del dolore nuovo, l’impotenza ad agire, l’angoscia della solitudine.
L’autore imprigiona la mente del protagonista in quest’immagine soffocante, lo percuote nell’animo fino a fargli realizzare che in quell’immagine, come in altre apparse nella sua vita, il bambino è fissato per sempre, quindi doppiamente tradito: prima dai genitori e poi dagli osservatori.
L’emozione trattenuta dal protagonista mentre è al cinema troverà sfogo una mattina come tante davanti al suo computer:
«L’immagine appare sullo schermo e una volta che l’immagine è apparsa è questione di un attimo, arrivano in un attimo, le lacrime, una scarica, […].
Sgorgano dagli occhi, brutali, come vomito. Non è affatto come l’ultima volta, come la prima volta, con il bambino, nel cinema […].
Stavolta è diverso.
Un’esplosione.»
Pochi minuti per recuperare il controllo, spegnere il computer e uscire fuori da quella stanza, camminare. Sparisce l’immagine, sparisce il mare, la spiaggia, il bambino, tutto.
Soltanto una cosa rimane, raccolta dentro un “fagottino invisibile” sul quale l’uomo si incurva leggermente quando è per la strada, trattenuta con forza per non inquietare la gente che passa, per non infondergli paura: le lacrime.
«Il mondo ha paura di chi piange.
Non bisogna spaventare il mondo».
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E allora continua il suo cammino segnato ora da una lacerazione interiore che lo accompagnerà fino a tarda notte, quando, ritornando a casa, recuperato dalla vita, farà un gesto che non era stato più il suo solito da tempo: aprirà la porta della cameretta dei suoi due figli e li osserverà placidi in mezzo ai peluche, senza dir nulla, solo gli occhi su di loro a riesumare un’altra immagine dalla memoria di padre, un’altra immagine che racconta la vita.
Loro dormono.
Per la prima foto, copyright: Anthony Cantin su Unsplash.
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