La vita del Garcia Marquez del pugilato. “L’oro e l’oscurità” di Alberto Salcedo Ramos
Sarei curioso di scoprire chi, fra quanti stanno leggendo queste righe conosce Kid Pambélé. Su cento, forse un paio… Sicuramente meno di cinque. Fortunatamente, dal 5 ottobre sarà possibile rimediare a questa lacuna, grazie al libro di Alberto Salcedo Ramos L’oro e l’oscurità. La vita gloriosa e tragica di Kid Pambélé, pubblicato da Alessandro Polidoro editore nella traduzione di Alberto Bile.
Di questo libro non ci sarebbe stato bisogno in Colombia. Lì ancora se lo ricordano bene Pambélé, quel giovane pugile nero, arrivato dal nulla che, passando per il Venezuela, per primo portò la cintura dei pesi welter junior nel paese sudamericano.
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L’intera nazione era sulle sue spalle, come ricorda lo scrittore Juan Gossain:
«Prima di lui, eravamo un paese di perdenti. Ci consolavamo coniugando il verbo quasitrionfare. Festeggiavamo ancora il pareggio con l’Unione Sovietica ai mondiali di calcio del ’62. Pambelé ci convinse che si poteva fare, ci mostrò per sempre cosa significasse passare dalle vittorie morali a quelle reali.»
e ancora:
«Prima di Pambelé, i grandi pugili colombiani in grado di competere per il titolo mondiale non provavano nemmeno a conquistarlo, credevano fosse troppo per loro. Dopo Pambelé, anche i pugili peggiori hanno iniziato a credere che fosse facile diventare campioni. Un po’ come la sindrome di Gabriel García Márquez: nessuno scrittore colombiano osava cercare un editore internazionale perché pensava di puntare troppo in alto. Da García Márquez in poi, chiunque pensa di poter vincere il Premio Nobel. Per me García Márquez è il Pambelé della letteratura e Pambelé è il García Márquez del pugilato.»
Il “Garcia Marquez del pugilato”. Un titolo che per qualsiasi sportivo (figurarsi poi se colombiano) sarebbe oltremodo lusinghiero. Per Pambélé, in un certo periodo della sua carriera, fu anche riduttivo: la sua fama oscurava quella del premio Nobel. Il giornale «El tiempo», infatti, aveva quattro faldoni di archivio sul pugile e solo uno sullo scrittore il quale era ben conscio di essere il numero due se, come racconta l’ex presidente Belisario Betancur
una volta, a una riunione di colombiani a Madrid, qualcuno aveva accolto Gabriel García Márquez esclamando: «È arrivato l’uomo più importante della Colombia!». Allora García Márquez, guardandosi intorno come se stesse cercando qualcuno sul ring, rispose: «Dov’è Pambelé?».
Ecco chi era Kid Pambélé, il protagonista della nostra storia.
La povertà infantile nel piccolo paesino di San Basilio de Palenque, nella provincia colombiana, il pugilato come mezzo per sfogare la propria rabbia e fuggire dalla miseria, la grande chance e la gloria, con la conquista del titolo. E dopo gli otto anni (dal 1972 al 1980) di dominio sul ring, ecco la parabola discendente, con l’abuso di droga e alcool, i guai economici, la violenza domestica e i problemi psichici: la storia di Antonio Cervantes Reyes, in arte Kid Pambélé, sembra uscita dalle mani di uno sceneggiatore di Hollywood.
Ciò Alberto Salcedo Ramos, come un qualsiasi colombiano, lo sa bene ma non si accontenta di raccontarne la vita in modo deterministico, prima esaltando l’ascesa alla ribalta di Pambélé e poi enfatizzando i dettagli più truci e grevi (quelli che piacciono tanto al pubblico) della sua caduta in disgrazia. Da buon giornalista lo scrittore cerca di descrivere prima di tutto l’uomo, non il mito o il capro espiatorio, intervistando amici, familiari, vecchi rivali e compagni, come l’allenatore Melquiades Tabaquito Sanz, o il manager Ramiro Machado.
Dalle varie testimonianze nasce questo libro, che più che risolvere l’enigma Pambélé, tenta di riproporlo in tutta la sua complessità. Dietro a ogni riga, lo scrittore sembra infatti sempre dirci, “ricordatevi che dietro tutto questo vi è un uomo.” Tale approccio di aderenza alla realtà induce addirittura lo scrittore a portare a galla i grandi nodi della vita di Pambélé e della sua rovinosa caduta (come la questione mai chiarita dei soldi che il manager gli ha rubato o meno, quando e chi gli abbia fatto scoprire la cocaina, etc.) senza però spingersi a darne una soluzione, come se nella vita, a differenza che nella letteratura, un’unica soluzione non ci sia e quindi non abbia senso cercarla.
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L’oro e l’oscurità, con i suoi dieci capitoli, apre dieci finestre (la carriera, la vita coniugale, l’incontro per la vittoria del titolo, la malattia sono solo alcuni fra questi) sulla vita di un uomo prima che un simbolo, con lo scopo non di spiegarlo o di darne un senso, ma semplicemente mostrarne – rifacendosi al celeberrimo aforisma di Walt Whitman – le moltitudini.
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