La verità su Sancho Panza
Autore: Davide EcattiVen, 12/10/2012 - 09:39
La letteratura e i libri in generale hanno il grande potere di condurre spesso la mente a riflettere su verità grandi o piccole. Sono quei dettagli dell’esistenza su cui un libro ha il potere di abbassare una lente potentissima. Questo fenomeno complesso procede talvolta per analogie di nomi, situazioni, fatti, personaggi. Persino il caso alcune volte ci mette lo zampino.
Prendiamo ad esempio un personaggio famosissimo, il fedele servitore del cavaliere dalla figura triste, Don Chisciotte. Il simpatico Sancho Panza. Nelle straordinarie pagine di Miguel de Cervantes egli è il paziente e fedele compagno del folle e tenero signore che vedeva nei mulini a vento dei terribili mostri. Sancho rappresenta quella parte di necessaria ragione che permette al cavaliere di togliersi dagli impicci più intricati e dai guai più terribili. Ma chi è Sancho Panza al di là del suo autore, chi è e cosa rappresenta? Forse potremmo scoprire altri aspetti sul suo conto cercandolo in libri diversi e procedendo per associazioni, riferimenti al suo nome e ai valori che egli esprime.
È il 1917. Franz Kafka scrive un brevissimo racconto. Solo poche righe. È intitolato La verità su Sancho Panza. Ecco le parole del grande scrittore praghese.
«Nel corso degli anni, durante le ore della sera e della notte, Sancho Panza, che però non se ne è mai vantato, procurò al suo diavolo, cui diede in seguito il nome di Don Chisciotte, una quantità di romanzi di cavalleria e di brigantaggio e riuscì ad allontanarlo da sé in maniera che questi, privo di controllo, compì le sue matte gesta, le quali però, in mancanza d’ogni oggetto prestabilito – che avrebbe dovuto essere appunto Sancho Panza -, non fecero del male a nessuno. Da uomo libero Sancho, imperturbabile e forse animato da un certo senso di responsabilità, seguì Don Chisciotte nelle sue scorribande e ne ricavò, sino alla sua fine, un grande e utile divertimento».
Dunque Don Chisciotte sarebbe la creazione di un uomo annoiato e desideroso di avventure. Sarebbe persino qualcosa di più di una creazione, un diavolo, uno spiritello ospitato nell’anima dell’individuo obbligato a vivere con piena ragionevolezza. Questo spiritello non può fare a meno di una libertà assoluta e non riesce a riconoscere le regole quotidiane del vivere comune. Potrebbe forse essere pericoloso, persino crudele, cattivo. E renderebbe forse il povero Sancho un disadattato agli occhi della società civile. Ma Sancho è talmente saggio da nutrirlo con tanti libri. Gli dona mille situazioni di fantasia con le quali può divertirsi, immaginando le più straordinarie imprese da compiere. Così due frati in viaggio con una dama diventano due incantatori che tengono prigioniera una principessa da liberare. E un barbiere non è altro che un potente da aggredire per togliergli la catenella confusa con un elmo prestigioso.
L’uomo comune, nel caso di Sancho Panza, riesce a nutrire la propria fantasia in modo costruttivo, impedendo che essa deflagri verso esiti tragici. La follia a cui accenna Kafka è alla fine una follia creativa ma purtroppo in contrasto con il vivere quotidiano e le regole rigide che esso impone. Nella sua interpretazione di Sancho, Kafka ha raffigurato un mondo in cui la libertà interiore è possibile solo grazie alla letteratura, delineando così un sistema di vita opposto a quell’inferno senza libri rappresentato in un grande romanzo della letteratura fantascientifica mondiale, Fahrenheit 451 di Ray Bradbury. Nell’opera dello scrittore americano è descritta una società in cui i libri sono considerati il male per eccellenza, perché allontanano gli esseri umani dalla concretezza della vita. Se le persone leggono diventeranno disadattate e folli, è il messaggio dei vigili del fuoco di Bradbury. Solo se le persone leggono si salveranno dalla follia, è il messaggio di Kafka.
È il 1886. Nella raccolta San Pantaleone, il giovane Gabriele D’Annunzio include un racconto intitolato La morte di Sancho Panza. È una scena breve ed intensa. Una dama dell’alta società entra nella sala di una casa elegante dove varie fanciulle l’accolgono con aria triste.
«Oh, Sancho, povero Sancho, che t’hanno fatto?», esclama una delle ragazze, preoccupata. Ma a chi si riferisce? Al povero cane, Sancho Panza appunto, prima tenuto tra le braccia della signora e poi adagiato su una poltrona.
Sancho è sofferente e cerca una posizione migliore per sopportare il male che lo affligge. Le fanciulle sono rattristate pensando alla compagnia che l’animale ha sempre fatto loro. Arriva il dottore che fa una diagnosi terribile. Non c’è niente da fare. È una paralisi, forse ereditaria, forse in parte favorita da un’alimentazione sbagliata. Le ragazze impallidiscono e le loro anime sono turbate, come dimostra il pallore improvviso sui loro visi. Sancho tenta di scendere dalla poltrona ma il salto è un’impresa troppo difficile. Viene aiutato ma poi non riesce a muoversi. Il dolore lo blocca. Sembra avere sete e le zampe appaiono bloccate. Su indicazione del medico una delle ragazze comincia a tagliare il pelo sulla nuca dell’animale.
Lo scrittore riesce a costruire una narrazione potente, basata sulla contrapposizione di due gruppi di elementi. Da un lato il lusso dell’ambiente, l’eleganza delle fanciulle, la loro angoscia che ha qualcosa di affettato, costruito, falso, il dettaglio del naso sgraziato e della fronte leprina di una di loro e una ripugnanza aristocratica quando devono tagliare il pelo. Dall’altro lato c’è l’immobilità dolorosa del povero cane, la sua grassezza esagerata, le zampe impacciate, buone ormai soltanto a trascinarlo verso la fine, prossima a venire. Questa contrapposizione prosegue quando una giovane mamma entra nella stanza con il bambino in braccio. La donna ride divertita vedendo il povero cane mezzo tonsurato. Il bambino si allunga verso l’animale e lei lo tira indietro per evitare che si bagni con la bava. Le altre ragazze informano la bella signora delle condizioni del povero Sancho. Lei fa il giro della stanza e aziona un meccanismo per la musica. Parte così una gavotta gioiosa che accompagna l’animale nei suoi poveri ultimi singhiozzi. La morte sopraggiunge sulle ultime note. Perché D’Annunzio avrà chiamato proprio Sancho Panza questo povero cane?
A me piace pensare che la scelta sia stata dettata da una suggestione potente collegata con il personaggio di Cervantes. Quella suggestione che consente di inserire contrasti straordinari anche nelle situazioni meno avventurose e più quotidiane. In questo caso il bambino, la musica, la morte del povero Sancho spingono il lettore a riflettere sul quel confine particolare che segna la distanza tra significati e situazioni così, all’apparenza, lontani: l’eleganza, la ricchezza, il male, la sofferenza, la gioia, la superficialità, l’affetto, la vita, la morte. Forse, spesso è solo la follia che consente, come nel caso di Don Chisciotte di oltrepassare questo confine e di poter vedere da una parte e dall’altra. Nel caso del racconto di D’Annunzio le persone stanno da una parte sola e il cane dall’altra.
È il 1961. Michel Foucault pubblica Storia della follia nell’età classica. In questo saggio monumentale l’autore definisce la follia per identificazione romanzesca, i cui tratti sarebbero delineati nell’opera di Cervantes. Foucault spiega che il tema è ripreso di continuo in altre opere letterarie e artistiche in generale. Le chimere si trasmettono dall’autore al lettore, ma ciò che da un lato era fantasia, dall’altro diviene fantasma. Nelle pagine del saggista francese comprendiamo che Sancho Panza è un estremo necessario di quella dialettica in cui la follia si muove e svolge la sua funzione essenziale. Ecco le sue parole:
«Follia, nella quale sono messi in discussione i valori di un’altra età, di un’altra morale, ma dove si riflettono anche confuse e torbide, stranamente compromesse le une dalle altre in una chimera comune, tutte le forme, anche le più lontane dall’immaginazione umana».
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