La verità dei selfie
La verità dei selife sta nelle parole di Vilém Flusser, nel suo Per una filosofia della fotografia, dove il filosofo del linguaggio scomparso nel 1991 individuava nell’eccesso di produzione di immagini una voracità inarrestabile degli apparecchi fotografici, una specie di vortice riproduttivo al servizio di una grande macchina mondiale delle immagini.
Portato alle estreme conseguenze, il pensiero di Flusser ci spinge a comprendere come dentro questo dispositivo/automatismo ci siamo tutti, quando non aggiungiamo informazioni, spessore, linguaggio e libertà alle nostre immagini.
Ecco, basta fare un giro per Roma o per Parigi per trovarsi di fronte alla nuova allucinazione collettiva del selfie davanti a qualunque monumento o residuo del passato. Personalmente ho assistito, nel giro di una settimana, a un selfie in posa erotica davanti al portone di Notre Dame e a uno in posa comica davanti all’Altare della Patria dove riposa, lo sappiamo tutti, il milite ignoto.
Dunque i monumenti vengono snaturati e dissacrati da questo vizio diffuso di appiattirsi su di essi senza conoscerne la storia. E certo, perché possiamo essere convinti che tra questi selfisti in pochissimi sappiano riconoscere stili ed epoche di quei marmi, di quelle architetture, di quegli esempi mondiali di progettazione e magnificenza.
Vivendo nell’egemonia robotica – e autistica – del cretinismo, il selfie è lo strumento dell’autodittatura del vuoto, della proiezione di sé nel terrificante palcoscenico dell’imbecillità collettiva: come se ciascuno, fotografandosi, possa essere considerato artefice di qualcosa di diverso da un semplice, banale viaggio in una capitale europea.
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Come se non bastasse, la robotizzazione permea la politica – Renzi è padrone assoluto del selfismo – in tutte le sue mirabolanti articolazioni, fino a sostituire il discorso, che era un prodotto della politica, con l’immagine, che è sempre più un prodotto standardizzato della tecnica.
L’esito è facile da prevedere: una limitazione del senso dentro il confine di un immaginario privo di fantasia e libertà, piatto come un’istantanea, probabile e confermativo.
Il selfie porta a una verità indimostrabile perché assente, perché piena della presenza del fotografo fotografato. Ci siamo noi e basta, consumatori di noi stessi, educati a divorare la nostra immagine e quella degli altri, in una nuova forma di cannibalismo che si chiama, a tutti gli effetti, assassinio della ragione.
Si gioca tutto su un piano emotivo a due dimensioni, dove nulla informa della presenza di una realtà manipolata, dove tutto sembra essere vero e reale: ma di vero e di reale c’è solo il grande dispositivo robotico che schiavizza l’umanità a farsi un selfie dappertutto. Questa la verità dei selfie.
Foto n. 1: Selfie photomarathon, di Jordy Ferket.
Foto n. 2: Pratiquer le Selfie au Panthéon (Paris), di Jean-Pierre Dalbéra.
Foto n. 3: Selfie davanti al Colosseo, fonte: 24horas.cl.
Foto n. 4: Selfie di Matteo Renzi, fonte: Lapresse.it.
Foto n. 5: Selfie Vélib, di Jean-François Gornet.
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