“La vera Justine” di Stephen Amidon, il labile confine tra bugia e verità
Incontriamo Stephen Amidon nella libreria Verso (di recente apertura, ma già vivace polo della vita culturale milanese). Lo scrittore sta affrontando il tour italiano di presentazione di La vera Justine, tradotto da Federica Aceto e da poco uscito per Mondadori – la casa editrice che ha mandato in stampa altri tre romanzi dell’autore. Fra questi Il capitale umano, da cui Paolo Virzì ha tratto il fortunato film omonimo, trasponendo la vicenda americana di Amidon, in una Brianza algida, tesa, con pochi scrupoli. Rispetto al lavoro con il regista italiano, Amidon dice: «Ero terrorizzato», ma successivamente: «Mi sono convinto, dopo aver visto quel film, che il tema della morte di un certo capitalismo è universale».
Diverso per argomenti, stile e andamento, l’ultimo lavoro di Stephen Amidon, La vera Justine, è un thriller psicologico, dove i piani della realtà e della finzione si mischiano senza dare tregua al lettore (e al protagonista). Michael, free lance divorziato in crisi professionale ed esistenziale che ha lasciato New York per andare a vivere nei sobborghi (ad Annville), si innamora della ventiseienne Justine. Dopo quattro giorni di passione amorosa, la ragazza scompare, apparentemente senza lasciare traccia. Chi è Justine? Nel tentativo di ritrovarla, Michael realizza che tutto quello che la ragazza gli ha raccontato è falso. Dopo nove mesi di silenzio, Michael la vede litigare furiosamente con un uomo, e così decide di rimettersi sulle sue tracce per scoprire la verità e (forse) salvarla.
La storia
«Dal punto di vista narrativo, il problema di questo libro, è: che cosa succede quando un uomo si innamora perdutamente di una bugiarda nata, congenita?» spiega Stephen Amidon. «Mi sembrava un buon incipit da cui partire, una bella storia da scrivere, anche perché mi avrebbe permesso di trattare tutta una serie di altre questioni come quella della violenza fisica, dell’identità, della terapia e di problematiche che non sono solo americane».
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Nel laboratorio dell’autore
Il processo creativo che lo ha portato a scrivere La vera Justine è complesso: «Questo è il mio libro più costruito. È stato molto difficile per me». La protagonista è una bugiarda cronica e dal punto di vista autoriale ha comportato delle scelte: come far credere al lettore a un personaggio che mente in continuazione? «All’inizio avevo pensato di scrivere un libro e di dare una voce ai due personaggi, Michael e Justine. Non funzionava. Il fatto che lei sia un personaggio (e non una voce narrante) è più interessante dal punto di vista della drammatizzazione. Il secondo problema era: bugiarda, ma perché? E che tipo di bugie sono?».
Accanto ai motori della narrazione, c’è anche il discorso tematico; Amidon ci spiega che per ogni libro sceglie un tema: «Tendo a essere veramente scevro dalle influenze letterarie, sono molto più influenzato dai problemi sociali. Il tema controlla, in un modo o nell’altro, tutto lo svolgimento della trama del mio libro. In questo caso, a quello strato di violenza, profondamente radicato, che permea la nostra vita negli Stati Uniti. E non parlo solo di violenza politica». È una violenza che attraversa le generazioni e può regolarne i rapporti: «Per esempio, c’è la tendenza da parte di noi che siamo più vecchi, a patologizzare i problemi dei più giovani».
Che cos’è la verità?
Tornando a parlare di temi, in La vera Justine, c’è anche il problema della debolezza della verità e della gestione della trasparenza anche a livello sociale. Il bilancio che fa Stephen Amidon è molto amaro: la sensazione è che la verità sia una specie di entità materiale. «Un bene che può essere acquistato. Chi ha più soldi, potere, miglior accesso mediatico può riuscire ad “accaparrarsi” la verità».
Lo sguardo dell’arte
In La vera Justine, c’è un personaggio chiave che è un artista e fotografo (Desmond Tracey), che scatta opere in cui ritrae donne ai margini, in situazioni umilianti o di abuso. La riflessione sulla fotografia che fa Stephen Amidon è piuttosto ampia, nomina come esempi l’opera di Robert Mappelthorpe e Andres Serrano. «Entrambi pazzeschi e sorprendenti», quando le loro opere hanno fatto irruzione sulla scena. «Mi sono interrogato sul potere della fotografia dopo queste esperienze. Spesso siamo vittima del fatto che l’arte debba essere meravigliosa. E se fai l’artista, puoi sentire quasi l’obbligo di produrre una cosa “bella”». Così, il personaggio di Tracey tratta il tema della verità «senza per forza dare al fruitore dell’opera saggezza o consolazione», ma mettendolo davanti a immagini che lo possano anche disturbare e allontanare.
I luoghi di La vera Justine
Tutta la narrazione si muove tra New York e i sobborghi, due spazi che hanno delle regole proprie e agiscono (nella vita dei personaggi) un’azione reciproca. New York è il posto dove si può fuggire, dove le cose accadono, dove c’è l’arte. Ma è anche un luogo da cui i personaggi del libro si allontanano per tornare o andare in provincia. E in provincia si muore, spiritualmente, o si rischia di morire fisicamente. Anche Stephen Amidon è cresciuto in uno dei sobborghi intorno a New York City. «C’era la “SpringtseenLand” (il New Jersey, ad esempio) o la “LouReedLand”. NY era la città dei reati, dove tutto andava a pezzi. Crescendo mi sono liberato di questa visione. Mi sono liberato dall’idea che i sobborghi fossero un santuario. Ho iniziato a pensare che non fosse tutto così tranquillo. Che la situazione di pericolo fosse proprio nei sobborghi».
Progetti per il futuro
Stephen Amidon sta scrivendo un nuovo libro: «Un romanzo molto corposo sulla paura», e sta lavorando a due sceneggiature. Tornerà al cinema sempre con Paolo Virzì e inizierà le riprese durante l’estate del 2016: una buona notizia non solo per chi ha apprezzato Il capitale umano, ma anche per il nostro cinema.
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