La vendetta come strategia per rinascere? “L’arto della guerra” di Gianluca Fortini
L’arto della guerra è la prima opera scritta dal bolognese Gianluca Fortini, edizioni Fernandel. È un romanzo tragicomico, pervaso da un umorismo irresistibile e amarissimo, alla Full Monty, con cui ha in comune l’intelligenza e la capacità di ironizzare sui drammi umani, pubblici e privati.
Il protagonista è un trentacinquenne bolognese solitario, ingenuo e «dai riferimenti culturali discutibili» – ha un solo amico che frequenta con una certa regolarità, ha fatto le scuole professionali e leggere libri gli fa venire il mal di testa – che passa le sue giornate fingendo di cercare un lavoro che «tanto non c’è», senza alcuna idea di cosa fare della propria vita. L’uomo è ritornato a vivere coi genitori dopo l’abbandono da parte della convivente “Rubiconda”, stufa di un partner che «non è al suo livello», abbandono che ha provocato in lui, ancora molto innamorato, una profonda crisi. Una crisi aggravata, oltre che dal profondo disprezzo del padre che è convinto sia un inetto sottosviluppato (“inverunì”) e si rifiuta persino di guardarlo in faccia, dalla perdita del lavoro, e portata al diapason dalla casuale scoperta dell’infedeltà di Rubiconda, che lo tradiva con un componente del suo gruppo delle superiori, ignaro che si trattasse della donna di un amico.
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In seguito all’ascolto delle colorite invettive di un esaltato giornalista nei confronti delle donne e degli infami “Italians”, il protagonista prova un senso di forte affinità e decide di farne il suo mentore. Seguendo il blog del giornalista capisce che, per dare un senso alla sua vita, deve a propria volta reagire alle infamie del mondo e un giorno, mentre sta camminando in strada, si lascia guidare dall’istinto a compiere il suo “atto di guerra” verso la società; il primo di una serie destinata a cambiare per sempre il suo destino. L’uomo scopre infatti di possedere uno straordinario talento, quello di saper reagire ai calci nel fondoschiena che la gente – soprattutto il padre e la ex – gli ha sferrato, «portando il concetto fuori dalla metafora, palesandolo», cioè “piazzando” veri calci con l’abilità di un Del Piero e arte “alla Pinturicchio” (da qui il soprannome “Piazzatore” presto datogli dai media). Il poderoso slancio dei suoi piedi, il cui bersaglio va, democraticamente, dal deretano dell’africano che chiede l’elemosina a quello dei connazionali, sindaco compreso, diventa così mezzo di vendetta/rivincita e insieme di rinascita.
«Mi guardai intorno come fosse la prima volta... Tutto mi era finalmente chiaro, assumeva la giusta collocazione… Ero rinato... Potevo anche essere disoccupato, avere trentacinque anni e vivere ancora a casa dei miei con un padre che mi disprezzava, ma io avevo trovato il mio scopo. La mia vita non sarebbe stata sprecata.»
Grazie ai suggerimenti dell’amico Sergio, il “Piazzatore” gira alcuni video di grande successo, che gli permettono di guadagnare e andarsene a vivere per conto suo, sfruttando il suo “talento” e l’attrazione che ha nei suoi confronti del dark web. Nel finale del romanzo l’uomo, che grazie alla viralità dei suoi video ha dato il là a una foltissima schiera di “ribelli”, emuli delle sue gesta o semplicemente fan, subisce un’ancor più radicale, definitiva e “ideale” trasformazione.
Apparentemente amorale, il Piazzatore possiede in realtà un suo saldo senso morale, per quanto fuori dagli schemi comuni. Reagisce ad esempio all’attacco di un paraplegico da parte di un suo grossolano imitatore («la vita glielo aveva già palesato abbastanza»), è riluttante a soddisfare le “perverse perversioni” dei feticisti e non sopporta di essere considerato di parte e bullo, al punto da scrivere al giornale che l’ha definito tale per spiegare che il suo è un «ATTO DI GUERRA… NECCESSARIO… DEFINITIVO». Contemporaneamente però colpisce inermi passanti tra cui una vecchia che sta cercando di salire sull’autobus e, dopo «aver guardato l’abisso», inizia a perseguitare due donne, probabilmente colpevoli di ricordargli Rubiconda, senza essere neanche sfiorato dal dubbio che quanto sta facendo sia sbagliato.
In definitiva nella costruzione del personaggio del “Piazzatore”, protagonista di L’arto della guerra, ci sono livelli di profondità e spunti di riflessione che a una lettura frettolosa potrebbero sfuggire. C’è in primo luogo il dramma della disoccupazione giovanile che costringe gli ultratrentenni a restare nella casa dei genitori, cosa che fa esplodere le conflittualità famigliari. C’è l’esigenza di sfogare la rabbia repressa e il bisogno collettivo di miti da adorare e imitare per sfuggire al vuoto esistenziale e alla spirale della depressione. Ma sullo sfondo ci sono anche il condizionamento delle menti operato dai media, la percezione che il successo troppo repentino rischia di dare alla testa, il serpeggiante razzismo («colpisci l’immigrato e manca poco che ti fanno l’ovazione, colpisci una fighetta vestita a festa e rischi la contusione multipla») e molto altro.
L’arto della guerra è in sostanza un romanzo ben più complesso di quanto appare in superficie, suscettibile di diversi tipi di lettura. È parabola della fatica che comporta la rielaborazione del lutto amoroso, vero filo conduttore del libro (non a caso la suprema rivincita il protagonista l’avrà in occasione del casuale – e spiazzante – incontro con Rubiconda). Storia della rinascita di un ultratrentenne che guarda il mondo col “perverso” candore di un bambino. Ma è anche versione irriverente e grottesca della provocazione pasoliniana. «È venuta ormai l’ora di trasformarsi in contestazione vivente». Il Piazzatore potrebbe infatti definirsi singolare “eroe” della contemporaneità, capace di lanciare ai suoi simili – abbandonati-disoccupati-disprezzati-maltrattati – il messaggio che è possibile ribellarsi e nascere a nuova vita, purché si abbia un progetto, quale che sia, e determinazione nel perseguirlo.
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Per quanto concerne il registro stilistico il colorito gergo giovanilistico, inframezzato da ricorrenti espressioni dialettali romagnole, è spesso interrotto da parole “erudite” e da riflessioni socio-filosofiche impeccabili nella forma e nella sostanza («nessuno è salvo, siamo tutti colpevoli... Pecchiamo d’arroganza o d’indifferenza» , o «gli altri vedono di te solo quello che vogliono vedere e orientano su di te le loro frustrazioni e aspettative»), scelta che aumenta l’effetto umoristico dell’insieme. La seconda parte del romanzo assume tra l’altro un’intonazione più nettamente surreale e satirica, soprattutto nei confronti della politica considerata «un parlarsi addosso» e di un partito in particolare («se fai un passo falso, se diventi impopolare a causa di una qualsiasi presa di posizione infelice, allora puoi sempre contare su di lei, devi solo sperare in un’esternazione dei suoi componenti politici. Quante carriere hanno salvato»).
Dopo aver “lanciato”, negli anni ‘90, Paolo Nori e a seguire molti altri, l’editore Fernandel, da sempre attento allo scouting, sembra aver scoperto un nuovo talento letterario dalla potente vis tragicomica. Si potrebbe obiettare che è troppo presto per affermarlo con certezza, e sicuramente Fortini dovrà confermare le proprie capacità nei suoi futuri lavori. Non è presto però per riconoscere che, se far ridere sparando a zero contro tutto con satire dissacranti è una dote posseduta da molti, e altrettanto lo è far piangere sui mali di noi poveri “italians”, riuscire a far ridere e insieme riflettere, mantenendo il giusto equilibrio tra partecipazione emotiva e distacco, con una leggerezza che non viene meno neppure di fronte alla politica o al dark web, come accade ne L’arto della guerra, è un talento elitario.
Per la prima foto, copyright: Tevin James.
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