La traduzione come arte di esitare. Dodici discorsi sul tema
Ci sono diversi modi di parlare della traduzione – e diversi toni, diversi momenti, diversi luoghi, diversi destinatari, diversi presupposti. Si potrebbe addirittura sostenere che un discorso sulla traduzione non sarà mai uguale a un altro, così come la traduzione di uno stesso testo non assomiglierà mai a quella che l’ha preceduta o che la seguirà, perché dopotutto i pensieri sul tradurre e la pratica stessa di questo mestiere «non sembrano trovare mai una forma, un assetto definitivo» (p. 162).
Quantomai utopistico e insieme geniale appare, quindi, il tentativo riunire e fissare l’opinione di dodici traduttori sulla carta, all’interno di un saggio che fin dal titolo, paradossalmente, ne presenta il fascino e l’estrema difficoltà: L’arte di esitare, edito da Marcos y Marcos nel settembre 2019 e a cura di Stefano Arduini e Ilide Carmignani. Nella loro operazione editoriale, per una volta il traduttore diventa nel senso più puro del termine autore, spingendosi addirittura al di là della definizione e trasformandosi per un attimo in un vero e proprio creatore. Creatore di domande, creatore di prospettive, creatore di storie.
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Ciascuno a suo modo, quindi, prendono la parola Yasmina Melaouah, Renata Colorni, Daniel Pennac, Franca Cavagnoli, Ena Marchi, Pino Cacucci, Adriana Bottini, Anna Ravano, Delfina Vezzoli, Susanna Basso, Claudia Zonghetti e Giorgio Amitrano, attraverso il discorso di accettazione che hanno pronunciato in occasione del premio ricevuto alle Giornate della Traduzione Letteraria dal 2007 al 2018 per la qualità del lavoro svolto negli anni nell’ambito editoriale.
Da un mélange di culture e di posizioni teoriche emerge così uno straordinario squarcio sui possibili mondi e sulle possibili maniere di interagire con un testo dalla bellezza nascosta o manifesta. Yasmina Melaouah, per esempio, elogia la necessità di imparare la lentezza e l’umiltà, mentre Daniel Pennac ricorda che la nuova vita di un romanzo ben tradotto consiste «in un testo che si incarna in una lingua che non è la sua lingua originale […] tanto da far esclamare al lettore: Sembra scritto in italiano!» (pp. 52-53). Franca Cavagnoli sottolinea, dal canto proprio, l’esigenza di abbandonare il sogno di una traduzione perfetta e Giorgio Amitrano suggerisce di volgere al positivo tale concetto, affinché serva da aiuto per «conoscere meglio l’aura che una parola possiede in una certa lingua» e per «restituirla nel modo più idoneo» (p. 173).
Con umiltà e autoironia, le dodici penne che hanno restituito una voce agli autori più disparati del panorama internazionale classico e contemporaneo riflettono dunque sulla necessaria solitudine della loro professione, che si affianca tuttavia al confronto con esperti di altre branche della conoscenza e con lo scrittore di cui si stanno occupando, all’interno di un costante atto di fede del quale nessuno nasconde né le brutture né lo splendore, né le ansie né la scintilla di piacere. E con estrema accortezza, inoltre, li si legge discutere del concetto di “tradimento” e di “fedeltà”, per non dire quasi con timore riverenziale.
«Per poter essere trasparenti e ininfluenti», commenta per esempio Claudia Zonghetti, «bisogna essere certi di avere colto in modo univoco ogni piega del testo e ogni più remota intenzione dello scrittore» (p. 152), compiendo l’ardua impresa di farsi «lastra di vetro, trasparente e ininfluente» (p. 151). Eppure, poco dopo la stessa traduttrice ammette che «l’umiltà del vetro è solo presunta e rivela, piuttosto, un’arroganza tanto candida quanto perniciosa» (p. 152), sottolineando ancora una volta le contraddizioni intrinseche del mestiere, che nemmeno le più navigate e serie personalità di riferimento in Italia sono in grado di sbrogliare fino in fondo.
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La sincerità e l’approccio a metà tra la divulgazione e il dibattito filosofico di questa raccolta di saggi riesce pertanto a coinvolgere neofiti e professionisti, lettori e figure della filiera editoriale, in una sorta di confessione priva di mediazioni grazie a cui finalmente l’arte di esitare è protagonista del discorso. D’altronde, come ben osserva Giorgio Amitrano, «finché noi traduttori umani avremo voce in capitolo, continueremo a coltivare valori apparentemente in contraddizione come universalità e diversità/singolarità, sapendo che è anche sulla loro armonia che si regge l’equilibrio del mondo» (p. 184) e rammentandolo con sapiente precisione a chiunque riponga fiducia nel loro ruolo.
Per la prima foto, copyright: Nicola Nuttall su Unsplash.
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