“La sumera” di Valentino Zeichen, che effetto fa oggi la prosa d’arte?
Dopo aver regalato al Bel Paese alcune delle migliori raccolte poetiche del tempo odierno, il poeta Valentino Zeichen si cimenta nella narrativa con il suo primo romanzo intitolato La sumera, edito a novembre dello scorso anno da Fazi Editore e da poco candidato al Premio Strega.
Non è certo il primo letterato della lunga nostra storia letteraria che sperimenta sé stesso su entrambi i poli, uno dei primi fra i moderni è stato proprio quel D’Annunzio che ancor oggi è conosciuto più per l’affascinante romanzo Il Piacere che per la raccolta di versi Alcyone. E all’avventuroso nativo di Pescara sembra proprio ispirarsi per la sua linea ritmica Valentino Zeichen, che immette nelle pagine della sua ultima fatica editoriale quella prosa cadenzata, armoniosamente compassata, altresì d’arte che non si rivedeva in Italia dalle lontane sperimentazioni dei ben più celebri Vittorini, Morante e Pavese.
Il romanzo è un NON ROMANZO, perché fondamentalmente non ha trama e se la critica letteraria vi ha visto una forte influenza della compassata mano di Federico Fellini, non ha assolutamente torto. Il regista della pluripremiata La dolce vita entra prepotentemente nelle pagine di questo testo. Innanzitutto l’ambientazione, quegli anni ’60 che già presentavano in prima scena le cabriolet e auto come quella della copertina, una Triumph Herald, che ingolosivano le ragazze borghesi e si slanciavano per le strade della capitale a suon di jazz, rock e lirica italiana. Non è questo un romanzo futurista e della velocità non c’è traccia. Piuttosto, come anticipato, c’è la telecamera di Fellini che si muove adagio fra le strade di Roma, umanizza ogni singolo particolare e come lui Zeichen si compiace di accompagnare il lettore. Un ben scelto quadro urbano, quello che va dalla Galleria d’Arte alla Flaminia, in quello spazio culturale che ospita musei, teatri e piazze secondarie, non per questo meno famose di quelle più frequentate dai turisti d’oggi.
Degli anni ’60 non c’è solo la Roma della prima urbanizzazione, ma anche quella dei giovani inerti, dal finto aspetto elegante, mezzi artisti e mezzi fannulloni che di scorcio ricordano I Vitelloni dello stesso Fellini. Mario, Paolo e Ivo sono tre amici, o forse sarà meglio dir conoscenti, che si scherniscono, collaborano e si sfidano. Se i primi due bene o male cercano di realizzarsi nella pittura, pur riscuotendo basso successo, l’altro quasi quasi rappresenta il letterato ozioso, inerme e disoccupato che nella visione della vita e nell’intellettualismo pensieroso ricorda vagamente Andrea Sperelli, padre dell’estetica dannunziana.
Come indicato dal paratesto di La sumera, Zeichen identifica i tre finti eroi con i tre moschettieri, ma è una chiave di lettura chiaramente antifrastica, perché di eroica non c’è nessuna azione; essi passano le loro giornate a non far niente, a ingrossare quella schiera di giovani dispersi romani che giustamente si autodefinisce in questo modo: «ogni generazione ha bisogno di campioni fallimentari per documentarsi su ciò che non ha funzionato. Noi siamo questo, facciamo un lavoro da cavie, promuoviamo studi sociologici, stimoliamo la ricerca, ti par poco?». Tradotto: i fannulloni, i vitelloni, i disoccupati o “chooser” del giorno d’oggi. Fra mostre, vernissage e conferenze il tempo passa, si disquisisce di cultura e pittura, si va ai musei per brillare con le visitatrici e magari cogliere l’attimo per strappare un appuntamento galante, ma pur trovando in tutti e tre una differente forma d’arte, il contenuto è nullo o quasi.
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Di fronte a inetti novecenteschi simili ai personaggi sveviani basta una LEI, scelta non casuale il mantenere l’anonimato, bella, incantevole, dagli occhi verdi e la pelle leggermente olivastra, contornata da tratti sumeri per scompaginare, disordinare e confondere le vite di questi tre immaturi uomini. Non una donna qualunque, un’amante dell’arte, un’emanatrice di fascino, una volubile, aggressiva, fiamma viva e bussola disorientante che nella sua perenne voglia di fare l’amore e non viverlo ricorda l’intrigante Maddalena della Dolce vita. Ivo diventa così il gagliardo Marcello, ma dell’affascinante giornalista recupera solo la passione amorosa. Per il resto il suo essere trasandato, il suo legarsi a un passato glorioso con le donne e il suo ritrovarsi spento e sconfitto dalla sua stessa immaturità ritraggono più uno sconfitto che un vincente.
Questa donna gioca con tutti e tre, anche ben oltre i limiti e la malizia consentita; Zeichen nel ritrarla mentre conquista il suo uomo calca la mano a Walter Siti e alla sua capacità di ritrarre l’eros nell'aspetto più realistico e acceso.
Se Ivo trova nella sua incompiutezza la sua immagine perfetta, Paolo e Mario, amici-nemici, rappresentano quell’esplodere dell’arte moderna per buttar fuori dall’inerzia delle loro vite la sofferenza di una noia moraviana. Ecco che non c’è niente del neorealismo accademico, ma l’arte moderna, fatta di bende colorate che si intersecano, oggetti di materia reale dentro il quadro e un tentativo mal riuscito di denunciare l’amorale espansionismo coloniale del Novecento. C’è l’arte di Fontana, che va ben oltre l’olio, la tempera e la tela classica.
Non manca un affettato e arguto attacco alla stessa critica d’arte con le sue “cavallette” e i suoi critici “cannoni a lunga gittata”, che possono portare un artista sull’olimpo del mercato o sotterrarlo per sempre. Come se l’artista dipendesse dai giudizi estetici degli altri e non da ciò che di innovativo sa produrre nel suo lavoro. La legge economica diventa legge imperante e sbalza quella artistica.
Gli anni ’60 così aprivano a una nuova epoca, dove anche la prosa lirica di D’Annunzio sarebbe stata sbalzata da quella sintetica e fratta del romanzo moderno. Zeichen fa un timido tentativo di riproporre una pagina classicheggiante, con le sue nervature descrittive, la sua nitidezza di particolari, la flemma della musica leggera italiana, ma oggi accettarlo e recuperarlo diventa un’impresa e la poesia nella narrativa trova il suo limite.
Cosa si può dire dunque della scelta verbale di Zeichen? In versi la metafora può essere scolpita, involuta e disvelare il suo significato all’improvviso, in prosa diventa una leziosa noia di descrizione miniaturistica dell’immagine e perfino del pensiero, diventa difficile sopportarla per il lettore moderno che cerca il ready-made, il flash, lo scatto e la prosa sempre più semplificata ed essenziale. Certo come voleva il cinema di Fellini nel romanzo si vive di attimi illuminati rari nel bel mezzo di un groviglio di confusione metafisica, quasi onirica, ma non c’è la fantasia che fa evadere dalla realtà, bensì quella sensazione di tre moschettieri che non vogliono agire, restare fermi e immaturi.
In questo chiaroscuro, in questa noia esistenziale che miscela cinema e pittura è insito il fascino della Sumera di Valentino Zeichen.
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