La storia di un abito inglese e di una mucca ebrea
Non ci sono guerre giuste. Non esistono i buoni e i cattivi. Esistono le persone, il potere, i giochi politici, i soprusi, la speranza, il desiderio di sopravvivere, nonostante tutto. E poi, esistono un abito inglese, di lana di Manchester, e una mucca ebrea, stando all’opinione di chi detta legge.
Storia di un abito inglese e di una mucca ebrea di Suad Amiry, uscito per Mondadori, nella traduzione di Sonia Folin, è un romanzo toccante, profondo, essenziale. Forse la letteratura non potrà cambiare il mondo, e ancora meno salvarlo, ma può farlo riflettere, dubitare, interrogare.
Siamo nel 1947. Subhi è un ragazzino, quasi diciassettenne, ed è un prodigio. È un meccanico straordinario, noto in tutta Giaffa per la sua capacità di riparare qualsiasi tipo di ingranaggio. È un ragazzo che si dà da fare; intraprendente, preferisce staccarsi dalla famiglia, guadagnare quel poco che gli basta per sentirsi autonomo e indipendente. È un ragazzo fiero, Subhi, ed è innamorato di Shams, la tredicenne più bella che si sia mai vista. La ama con devozione, in modo puro, profondo e definitivo. Non osa parlarne al padre di questo amore che gli brucia nel petto, Shams è figlia di contadini, per giunta, il padre dell’amata è un subalterno del padre di Subhi. Una storia difficile già in partenza.
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Subhi non lo rivela a nessuno, o quasi, ma appena ha l’occasione di guadagnarsi l’abito da sposo, sebbene titubante, decide di osare.
L’evento è fortuito. L’aranceto di uno dei più ricchi uomini della città soffre a causa di un guasto meccanico al sistema di irrigazione. Tantissimi professionisti si sono recati sul luogo per cercare di riparare il guasto, ma senza riuscirci. Subhi è l’ultima speranza. È giovane, ma è noto per la sua destrezza. Il ricco proprietario gli promette un abito su misura di vera lana di Manchester, se riesce ad aggiustare l’impianto. Gli regala un sogno, una mattonella da aggiungere al suo castello in cui Shams è la regina e lui il re. Lo custodirà in modo ossessivo, come la cosa più preziosa al mondo, come un rifugio, un passe-partout per accedere alla quiete di prima.
Perché c’è un prima e un dopo.
Giaffa, nel 1947, è prossima a restare mutilata dalle forze occidentali che amano giocare a ridefinire i confini del mondo come se si trattasse di un puro gioco, senza implicazioni di natura reale.
La storia non procede mai per singhiozzi, per salti bruschi da un punto all’altro. La storia è sempre un processo lento, frutto di un piano umano, di un disegno che porta profitto a qualcuno e sottrae qualcosa — solitamente la vita — ad altri.
Giaffa. 1947. Piano di partizione della Palestina. Nascita dello Stato di Israele. Sono queste le parole chiave per comprendere il contesto generale che funge da palcoscenico per la storia di Subhi e Shams. Sono i punti fermi di una storia piena di sofferenza, di dolore, di sangue, di ingiustizie, ma anche di speranza, di vita.
Arabi da una parte, ebrei dall’altra: è questo il disegno dell’Occidente. Che se la cavino da soli… Certo, con un qualche aiuto per una delle due fazioni, perché il controllo è sintomo di potere e il potere non lo si abbandona al proprio destino. L’Inghilterra dichiara di ritirarsi entro sei mesi, dopo di che, non è più un suo problema di chi siano le case nelle città miste, nei quartieri dove uomini musulmani hanno sposato donne ebree. Non è più il problema dell’Occidente nemmeno se i rifugiati hanno dove rifugiarsi, se si spara sugli orfani riuniti per il pranzo, se madri e padri perdono i propri bambini mentre corrono come topi in mezzo ai campi sotto una pioggia incessante di spari. L’Occidente si riempie di fumo negli occhi e si distrae giocando a tennis, a calcio, a decorare le case, a bere il the, a indignarsi che, nonostante tutto lo sforzo di distrarsi e non vedere, questi profughi — da ovunque arrivino — continuano a riversarsi nelle strade pulite e profumate di un mondo che non gli appartiene.
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Suad Amiry non lo dice in modo esplicito, ma il lettore, a tratti con gli occhi inumiditi, non può non cogliere lo strato sottostante alla delicata storia d’amore tra due bambini.
Ancora più sorprendente dello stile coinvolgente dell’autrice, di Storia di un abito inglese e una mucca ebrea colpisce la traduzione che restituisce un viaggio estraniante, al profumo di spezie e dai rumori lontani di una Palestina che gran parte dell’Occidente conosce ancora poco.
Per la prima foto, copyright: Chen Mizrachs u Unsplash.
Per la terza foto, la fonte è qui.
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