La storia di Franco Percorco: fu solo un assassino narcisista?
Man mano che si procede nella lettura di Percoco, romanzo d’esordio di Marcello Introna, si avverte un sottile senso di presagio e di tragedia incombente. E sarebbe lo stesso anche se non conoscessimo, a priori, questa pagina di cronaca nera nell’Italia del dopoguerra. Introna affresca una Bari sfavillante e solare, seducente come una Gina Lollobrigida, scanzonata e intelligente come le commedie in bianco e nero di Macario, Totò e De Filippo, che entrano nei salotti dallo schermo della neonata televisione. C’è il desiderio di lasciarsi alle spalle gli orrori – non ancora del tutto consumati – della guerra, di ricercare il benessere economico e la rispettabilità, con un occhio ai piaceri della vita mondana proposti dai vip e alle nuove tendenze della moda che arrivano da oltreoceano. Immersi in questa atmosfera, l’autore ci fa entrare in via Celentano 12, un palazzo borghese alla periferia della città, nell’appartamento dei Percoco, una famiglia di condizioni modeste ma decorose: il padre Vincenzo è un ispettore delle Ferrovie in pensione, uomo mite e gran lavoratore; sua moglie, Eresvida, figlia di ricchi possidenti terrieri, è una signora piuttosto assillante, lamentosa e tendente alla depressione. La coppia ha tre figli: Vittorio, un cleptomane che sta scontando in carcere una condanna per i suoi numerosi furti; c’è poi Giulio, affetto dalla sindrome di Down, confinato tra le quattro mura dell’appartamento, la cui esistenza è taciuta e nascosta a una società perbene che non accetta disagi o imbarazzi; infine Franco, un ragazzo bello e sensibile, coi capelli neri, con «un naso sottile e perfetto che ci si sarebbe potuto stendere l’impasto per quanto era dritto», il figlio in cui la famiglia ripone i suoi desideri di riscatto sociale, rincorrendo il sogno di una normalità, ahimè, ben presto preclusa.
Nel padre Vincenzo fa capolino, spesso, un certo fatalismo: sembra una famiglia perseguitata, la sua o, come con Giobbe, può essere che Dio lo stia mettendo in qualche modo oscuro alla prova. Eppure Franco cerca, sulle prime, di ritagliarsi un suo spazio nella vita. Mette impegno nello studio, e Vincenzo gli paga le rette all’università, anche se il giovane saltabecca da una facoltà all’altra. Le sue prestazioni agli esami sono minate da ansia da prestazione, se non da vere e proprie crisi di panico. L’indole reale del ragazzo sembra essere quella del perditempo: trascorre ore nei bordelli, è un bugiardo patologico e si inventa false identità, rivela interesse solo per i vestiti e i beni di lusso. Si guadagna un primo nomignolo, il Turco, per i suoi comportamenti indecifrabili e spesso privi di senso agli occhi di chi gli sta intorno. Ruba una spilla d’oro alla madre e si allontana dalla città, concedendosi una cena raffinata d’addio con Maria, una prostituta in partenza per Napoli della quale si è invaghito, e poi un soggiorno al nord, tra Como e Colico, mete casuali dove millantare grandezze inesistenti, fingendosi ora un calciatore per sedurre una cameriera, ora uno studente d’ingegneria meccanica al Politecnico milanese, ed essere infine rispedito a casa con una sifilide incipiente, dopo esser stato rintracciato dalla polizia ferroviaria, pizzicato per un furto di dollari in albergo. Papà Vincenzo onora una multa salata, senza batter ciglio, e il figlio non viene segnalato al casellario giudiziale.
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Franco patisce le responsabilità che gli altri membri della famiglia gli addossano, i fallimenti che accumula man mano che gli anni trascorrono, le altalene dell’umore, i violenti attacchi di mal di testa, le improvvise esplosioni di collera o di scoraggiamento, che gli valgono di volta in volta il soprannome de il Truce o l’Esaurito, con la madre che non perde l’occasione di rovesciargli addosso tutto il suo risentimento e la sua delusione, col fratello handicappato che gli lavora i fianchi, tempestandolo di richieste di giochi a guardie e ladri. «[…] Franco aveva sempre questi strani affari in ballo, fatto sta che era spesso senza una lira, si lamentava della miseria che, a suo dire, gli passavano i suoi, del fatto che fosse costretto a rincasare non più tardi delle nove, e una volta col Bellomo si era lasciato sfuggire di odiare i genitori per tutto il male che gli facevano, ma senza aggiungere altri particolari a condire tale pesante affermazione che dunque era rimasta lì cristallizzata, come un insetto preistorico colto nel sonno da una goccia di resina divenuta lentamente ambra».
Allora quella casa che Introna definisce «una chiesa sconsacrata circondata da un muro alto che non faceva trapelare la galera di Vittorio, le mattane di Eresvida, i cromosomi di Giulio e l’esaurimento di Franco» comincia a divenire opprimente; è un interno borghese dove in apparenza, per chi osserva da fuori, è tutto così banale e ordinario ma nel profondo cela forze potenzialmente soverchianti, pronte a sprigionarsi, gallerie degli orrori non dissimili da quelle del palazzo fatiscente detto La Socia, nei pressi del sottopasso di Sant’Antonio, dove Franco soleva passeggiare e osservare le vetrine dei negozi più facoltosi, ricchi di inutilità che a lui parevano utilissime, o per andare al cinema, a braccetto con la sua fidanzata di sempre, Tina, una relazione avviata solo per opportunità. La Socia, coi suoi muri impregnati di morte e pestilenza, era un tumore in seno alla città, a lungo ignorata e rimossa dalle coscienze, e dava ricetto a sfollati, senzatetto, psicopatici e malviventi, fino a che non venne prima sequestrata e poi rasa al suolo dalle autorità.
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Il sabato 26 maggio 1956 poteva essere una giornata come tante altre dove, invece di alzarsi alle 7 come sempre, era preferibile poltrire a letto. E più tardi vagabondare per le vie di Bari, tra una partita di calciobalilla, un cognac al bar o cercando di organizzare un’improbabile gita tra amici nel Gargano – dove avrebbe trovato, Franco, il denaro necessario per noleggiare un’auto e salvare le apparenze delle sue spacconate? Quel sabato Eresvida, sua madre, ancora una volta non gli avrebbe lesinato i suoi sfottò, umiliandolo per la sua irresolutezza, per la sua vigliaccheria, per il suo essere “niente”. E a tarda sera, prima di andare a letto, Vincenzo lo avrebbe in parte consolato, dicendogli che sua moglie era fatta così, e lo avrebbe salutato con una piccola carezza sulla testa. Dopo la mezzanotte, però, le emozioni negative di Franco si sarebbero gonfiate come un fiume in piena, per uscire dal suo alveo e travolgere tutto. Con lo stesso coltello col quale poco prima aveva “ucciso” una mela massacrò nel sonno sua madre, suo padre e il fratello minore. Poi sigillò la camera, si ripulì di tutto quel sangue e si sentì di colpo stanco morto. Dormì un sonno profondo e il giorno successivo cominciò “a vivere”.
Percoco, il mostro di Bari, venne evocato per anni da una città sgomenta come un campione di efferatezze e crudeltà. Franco detiene un insolito e agghiacciante primato; è stato il primo caso di strage famigliare del dopoguerra, e anche il caso in cui l’omicida convisse a lungo con i cadaveri dei famigliari: una decina di giorni, prima di allontanarsi da casa perché il tanfo della putrefazione si era fatto insopportabile e, attraverso una crepa nel muro, si diffondeva nell’appartamento dei vicini, che iniziarono a nutrire qualche sospetto. Nelle sere successive al delitto Franco Percoco organizzò serate conviviali con gli amici. Quando si allontanò dalla città e si scoprì quella carneficina, esplose una sorta di psicosi collettiva: Percoco veniva avvistato ovunque; un soldato che aveva solo l’inconveniente di assomigliargli rischiò il linciaggio. Franco fu arrestato il 9 giugno in una pensione di Ischia, dove si era regolarmente registrato con la sua carta d’identità. Non fece resistenza. Non seppe dare spiegazioni. Il direttore della «Gazzetta del Mezzogiorno» e il giornalista che scrisse l’articolo in cui si descriveva con minuzia di particolari la carneficina operata dal mostro di Bari nell’appartamento di via Celentano furono accusati di aver diffuso notizie raccapriccianti. Vennero arrestati, allontanati dal lavoro e non più reintegrati. Le copie del giornale vennero ritirare porta a porta, e il caso rinchiuso e dimenticato nei sotterranei dell’archivio di Bari.
Marcello Introna, nato a Bari nel 1977, si è laureato in Medicina Veterinaria e ha un dottorato di ricerca, all’Università di Bari. È autore e sceneggiatore, attore e chitarrista. Si imbatte nel mostro di Bari quasi per caso, leggendo un articolo e riesce, tramite le giuste conoscenze, a riportare alla luce il faldone sepolto. Il romanzo, prima di essere edito da Mondadori, venne pubblicato nel 2012 da una casa editrice pugliese ed ebbe un discreto successo locale. A Introna non interessa comprendere le ragioni – pressoché insondabili – delle azioni di Franco Percoco. La sua è un’empatia immediata, curiosa e tenace per Franco e la sua vicenda famigliare. Sin dall’incipit, dove troviamo Franco tredicenne col fratello Vittorio, colti con le mani nel sacco dopo aver razziato da un appartamento due bottiglie di spumante e un cesto di fichi secchi, a Introna interessa il “prima”, l’accompagnare Franco nelle sue giornate, accarezzare i suoi umori, ciò che lo rendeva di volta in volta silenzioso, ombroso, rancoroso, cosa lo faceva trepidare di speranza e avvampare di felicità prima di varcare i cancelli del suo inferno personale, senza giudicare o avanzare condanne. Alle modalità dell’omicidio viene dedicato solo un capitolo, e al processo qualche scarno accenno.
Più che un romanzo noir il libro di Introna potrebbe caratterizzarsi come l’identikit psicologico di un pluriomicida, anche se lo stesso Franco Percoco sembra difficilmente imbrigliabile nelle categorie valide per altri omicidi seriali. Il modello ideale sembra essere il Truman Capote di A sangue freddo, anche se le peculiarità di Percoco sono una certa evanescenza, sorta di ritratto intimo e partecipe, privo di tecnicismi, servito da una scrittura piana che a volte si accende di qualche bizantinismo, con venature oniriche e surreali che fanno pensare a qualche racconto di Dino Buzzati, elementi sempre controllati e ben amalgamati, per convergere sulla figura, inquietante e sfaccettata, del mostro di Bari, del giovane che «[…] non aveva passioni, non aveva talenti, non aveva che un’intelligenza abbastanza raffinata per capire e non poter evitare di confessare a se stesso di non avere passioni né talenti». Ora, però, era passato di grado, e si sarebbe compiaciuto del suo nome, che sarebbe risuonato per sempre evocando terrore e morte (non si era forse registrato con quel nome, nella pensione di Ischia dove si era rifugiato dopo aver lasciato Bari?), sarebbe entrato nel linguaggio comune, come carta, pane, latte. Franco Percoco sarebbe divenuto forse un modo di dire e, in effetti, fu così per molto tempo: «E cci sì Franghe Percoco?». Questo si sarebbe detto per descrivere un atteggiamento efferato o per chi mostrasse segni di squilibrio: «Chi sei, Franco Percoco?».
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