La storia dell’animale che era “Quello che voleva essere”
La graphic novel – ormai sempre più popolare – è un mezzo letterario che unisce la parola scritta all’immagine, ed è tanto più potente quanto più riesce a delegare all’elemento visivo quello che in un romanzo potrebbe essere trasmesso dalle parole. Una forma di letteratura che a mio parere può essere più facilmente plasmata dal lettore in base alle sue esigenze, una forma d’arte che conduce in modo organico alla scoperta di una storia, che è sì tratteggiata dall’autore ma viene donata al lettore che può recepirla secondo il suo personale immaginario; così io in un volo di rondini posso leggere la gioia del ritorno a casa e qualcun altro l’ansia stringente per un lungo viaggio. Parlo naturalmente di tutto ciò che concerne la parte emotiva e soggettiva di una narrazione, di un romanzo posso immaginare le fattezze dei personaggi e arrivare a sentirne la voce nei dialoghi ma sarà lo scrittore a raccontarmi ciò che provano, mentre la graphic novel mi consegna immagini che possono essere più o meno dettagliate ma lascia che sia io a capire i sentimenti. L’immagine evoca, la parola definisce.
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Certo, questo accade solo in quelle graphic novel mute, o comunque molto silenziose, come Quello che voleva essere di Carol Swain (Tunué, traduzione di Omar Martini) dove le parole sono dosate con il contagocce e le immagini lo strumento narrativo privilegiato. L’autrice, in più, non si affida neanche al potere definitivo del colore e lascia che siano le sfumature di nero a tratteggiare i suoi paesaggi, così il lettore malinconico ci si tufferà come sotto una coperta di lana in pieno inverno mentre un sognatore, nella sua mente, potrà colorare a tinte vivaci tutto ciò che vede; perché il bello di una storia come Quello che voleva essere è la capacità di far riflettere senza pretendere di dare risposte immutabili.
Helen ha undici anni ed è cresciuta a Londra, ma quando noi la conosciamo si è appena trasferita nella campagna gallese insieme ai suoi genitori. La vediamo seduta in mezzo a un campo, munita di matita, taccuino e binocolo, intenta a scrutare il cielo, affascinata dalle rondini che sorvolano il paese. La natura, infatti, è la sua passione anche se non ne ha grande esperienza, così, curiosa, trascorre le sue giornate a osservare gli uccelli e gli altri animali che popolano la campagna, e sul suo quaderno trascrive tutto quello che fanno. O almeno era così che faceva finché Bill, un contadino che abita nei dintorni, le aveva parlato di un esemplare raro di volatile – Emrys – che si è tolto la vita. E cosa può esserci di più interessante per una ragazzina di un mistero da risolvere?
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Ed ecco che Carol Swain ci accompagna con la sua penna in un viaggio, reale e simbolico, alla scoperta di questo volatile raro che «non aveva ali e non sapeva volare». Ad aiutare Helen in questa indagine saranno proprio gli animali da cui è tanto affascinata, gli unici che conoscevano Emrys e hanno voglia di raccontarlo, anche se non lo hanno mai capito perché «Non sono sicuro se fosse un gallo o una gallina» ma era Quello che voleva essere, indipendentemente dalle aspettative e dalle convenzioni. Un esemplare raro, solitario, che ha deciso di lasciarsi morire e la domanda a cui Helen cercherà di dare una risposta, dopo “Chi era Emrys?”, sarà proprio: “Perché si è ucciso?”.
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Quello che voleva essere tocca il tema delicato e attuale dell’identità e della libertà e lo fa con una delicatezza che lascia stupefatti e affascinati. Come dicevo all’inizio, i protagonisti di questa graphic novel sono i disegni, semplici ed essenziali, ma le (poche) parole sono scelte con altrettanta cura e precisione. «La Raymond Carver del fumetto britannico» titola la rivista «Time Out» in quarta di copertina e, per quanto non mi piacciano le definizioni urlate per far abboccare possibili proseliti in cerca di una lettura sicura, devo ammettere che una capacità di sintesi visiva così forte si incontra raramente.
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