La società e la sfida della disabilità. “Nessuno può volare” di Simonetta Agnello Hornby
Parlando di autori, il più delle volte si è tentati di immaginarseli come persone che hanno il compito di "rendere reale", per noi lettori, una loro fantasia: i personaggi e le storie che li riguardano. La scrittura però non è solo questo, fiction. Un genere a volte dimenticato è, infatti, quello del non-fittizio, ossia quella letteratura rappresentata da testi i cui contenuti sono basati su fatti reali. E Nessuno può volare, nuovo romanzo di Simonetta Agnello Hornby (edito da Feltrinelli), vi rientra appieno.
Dopo aver regalato ai lettori tanti libri basati su personaggi immaginari, la Hornby decide di concentrarsi infatti sulla realtà, trovando la forza di raccontare un'esperienza molto sofferta: la malattia del figlio Giorgio. Attorno a questo perno, la scrittrice svolge, sin dall'inizio del libro, una serie di considerazioni di carattere più generale che mettono in discussione l'appartenenza di quest'opera al genere del romanzo, facendola slittare quasi verso il saggio. La disabilità infatti non solo viene trattata attraverso il racconto a due voci di mamma Simonetta e del figlio, con due prospettive ovviamente molto diverse, ma anche attraverso una valutazione di come la disabilità venga percepita a livello sociale, civile, persino urbanistico. In tal senso, per quanto quest'opera sia un testo molto partecipato (visto il grado di coinvolgimento dell'autrice), bisogna riconoscere che non cede mai al patetico: grazie alle riflessioni, cui si accennava, l'autrice riesce infatti a dare una visione al contempo empatica e obiettiva del tema della disabilità, alla quale sa guardare con mente lucida.
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Nelle primissime pagine il tema non è ancora del tutto chiaro: la Hornby, attraverso la narrazione di espisodi che comprendono ben quattro generazioni, inizia il suo personale racconto parlando di come "la diversità" venisse trattata in famiglia, e dunque anche da lei quando era appena bambina:
«Ripetevamo ai bambini in visita "Giuliana non può correre". Non ci passò mai per la testa che avesse un difetto o una menomazione, o che fosse meno abile degli altri. [...] In famiglia usavamo con naturalezza quel genere di espressioni per indicare una forma di "diversità", accennando a un'impossibilità o a una fatica che non erano però sintomo di inferiorità.»
Questo modo di rapportarsi alla diversità è tuttavia destinato a essere rivisto nel momento in cui l'autrice, toccata della malattia del figlio, si chiede se non esista un modo migliore di vivere l'alterità:
«In casa nostra si cercava di normalizzare le disabilità altrui attraverso il linguaggio, ma con il tempo mi sono resa conto che questo intento in sè lodevole rischia, soprattutto se le parole non sono accompagnate da azioni molto concrete, di trasformarsi in una pericolosa negazione dell'evidenza. Perché un sordo deve essere chiamato non udente, anziché sordo?»
L'esperienza della malattia del figlio porta l'autrice a rifiutare la "scorciatoia" della negazione, a favore dell'accettazione: solo grazie alla consapevolezza della diversità, pare dire la Hornby, sarà possibile costruire una realtà che sia pronta ad accogliere "i diversi", garantendo un'uguaglianza fra abili e disabili. Per accettare la diversità bisogna, però, anzitutto conoscerla. Perciò, leggere quest'opera scritta a quattro mani, e in particolare la parte dedicata al viaggio in Italia di Giorgio in compagnia della madre, significa innanzi tutto confrontarsi con le difficoltà quotidiane che un disabile deve affrontare in un mondo che spesso si chiude di fronte all'alterità, non accettandola. Così attraverso la testimonianza di Giorgio si vengono a conoscere gli ostacoli che le città italiane e la società pongono di fronte al disabile anche per compiere operazioni apparentemente semplici: farsi fare la barba, visitare una sala affrescata, salire su un treno, andare al bagno.
Nessuno può volare è però un testo che, pur evidenziando una scarsa attenzione sociale al tema della disabilità, non rinuncia a una visione propositiva per il futuro: grazie a questo libro e al docu-film che ne è stato tratto,la speranza è che la "società degli abili", lettori compresi, diventando più consapevole delle problematiche che i disabili devono affrontare, si impegni a creare realtà più inclusive, a benificio di una migliore convivenza civile. Una maggiore inclusività potrebbe passare, per l'autrice, attraverso provvedimenti inerenti l'urbanistica e il settore dei trasporti, al fine di creare città aperte alla "diversità", ma anche attraverso un atteggiamento solidale che si dovrebbe avere verso la disabilità. L'idea è che, anche di fronte a una realtà che mal si adattasse alla disabilità, siano quindi le persone a intervenire, non per ricevere una ricompensa ma perché intervenire è giusto. A tal proposito, riportiamo un passo del libro in cui l'autrice si esprime positivamente proprio sulla capacità di intervenire non per dovere, ma per umanità:
«Anziché spiegare, cercare scuse inesistenti, lamentarsi o dare la colpa a qualcun altro, sono andati subito al dunque e hanno cercato di rendere possibile la nostra visita, prodigandosi – anche loro – al di là delle loro mansioni e probabilmente contravvenendo al regolamento.»
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Nessuno può volare da solo, questo è il messaggio del titolo, ma una società più consapevole potrebbe certamente dotare i meno fortunati di ali.
Per la prima foto, copyright: Matt Artz.
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