La Shoah spiegata col cuore. La storia di Lev
«Quando entrano in vigore le leggi razziali di Hitler ho nove anni. Gli ebrei non possono più lavorare, non possono più sposarsi con non-ebrei, né andare nelle scuole pubbliche. Non posso più entrare nemmeno nella panetteria sotto casa per comprare i biscotti. Non è vietato, ma tutti sanno che il fornaio non vuole vedere ebrei nel suo negozio».
Lev, che in ebraico significa cuore, di Barbara Vagnozzi (Gallucci editore) è tratto da una storia vera:una forma, autentica e costruttiva, di spiegare la Shoah ai bambini, non solo attraverso la delicatezza della prosa, ma anche la morbidezza (nel tratto e nel colore) delle illustrazioni a cura della stessa autrice.
Il libro racconta di come un bambino e sua sorella riuscirono nel 1939 a scampare alle future deportazioni naziste grazie ai Kindertransport, trasporti speciali organizzati dalla Gran Bretagna per la messa in sicurezza dei bambini ebrei dopo l’entrata in vigore delle leggi razziali nel 1935.
Di fronte a quello che sarà il preludio dell’Olocausto, una parte della comunità internazionale inizia a chiedere permessi speciali che consentano almeno ai bambini di lasciare la Germania, ma solo alcune associazioni inglesi accettano di raccogliere fondi per rendere operativi i Kindertransport, peraltro onerosi e funzionanti solo fino allo scoppio della guerra.
È Hanna, la sorella di Lev, a partire per prima e a cercare un modo per ricongiungersi al fratello: cuce bottoni in una sartoria nella speranza di guadagnare abbastanza soldi per concedere anche a lui di trovare una via di fuga, e il desiderio di riabbracciare il fratello la porta a consumarsi sui bottoni da infilare, uno dopo l’altro, come le monetine che si accumulano nell’immaginario salvadanaio della speranza.
«Cuce e attacca,
cuce e attacca,
un bottone dopo l’altro,
un bottone dopo l’altro.»
Ma anche la speranza di una vita da salvare, in tempi maledetti, costa cara, e il lavoro di Hanna sarebbe inutile se non intervenisse la commozione di una signora inglese che riesce a trovare il denaro necessario per portare anche Lev in Gran Bretagna, su uno degli ultimi treni carichi di piccoli profughi. Prima di imbarcarsi sul Kindertransport i soldati, però, spogliano i bambini dei loro averi e Lev, oltre a essere picchiato, perde la sua valigia e la sua preziosa collezione di francobolli.
E una volta in Inghilterra? È in salvo sì, ma «Siamo tutti ragazzi, soli, senza famiglia. Ci radunano in un campo estivo, […] Poi ci mandano in campagna, […] mi assegnano a una famiglia di contadini […] Il cibo migliore è per i loro figli, e per me solo quello che resta».
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E del resto della famiglia di Lev e Hanna che ne è? La mamma riesce a fuggire prima in Svizzera e poi in Inghilterra dove può finalmente riunirsi ai suoi figli. Il papà vive da clandestino, tra battaglie, fame, malattie, peripezie che non ha mai voluto raccontare ma che non è riuscito a dimenticare. Anche lui alla fine arriva a Londra e ritrova la sua famiglia, ma dura poco: la guerra l’ha segnato al punto da ucciderlo di crepacuore.
Lev cresce in fretta e diventa un uomo e un padre di famiglia, impegnandosi a lavorare «con ebrei, cristiani, induisti: io non ho mai fatto differenze.»
Levdi Barbara Vagnozzi non è una fiaba ma dalla fiaba assume l’archetipo narratologico, raccontando una storia con un esplicito intento: spiegare l’impossibile, sebbene l’impossibile non sia, in questo caso, il fantastico, il meraviglioso, il magico, insomma, cui la definizione stessa di “fiaba” e le sue declinazioni storiche ci hanno ormai abituato. Questa volta l’impossibile è stato invece possibile, una barbarie che solo la colpevole miopia di chi non volle comprendere per tempo la follia che consumava il cuore dell’Europa trasformò in uno dei massacri ancora oggi meno privi di senso che la Storia ci obbliga ogni anno a ricordare, anche perché dimenticare sarebbe un crimine ancora più feroce, e la cui responsabilità ricadrebbe, questa volta, non solo su un gruppo di esaltati, accecati da ideali di inconcepibile insensatezza, ma su noi tutti, sui nostri figli e nipoti. E sarebbe come aver perpetrato quel crimine non una, non due, ma sei milioni di volte. E saremmo noi i colpevoli.
Ecco, è questa la sfida di Lev e della sua autrice: non solo mantenere la memoria ma trasmetterla ai bambini, a quella generazione che a distanza di settantuno anni rischia di perdere il senso di ciò che è stato, scambiando la percezione della realtà con l’ennesima leggenda, l’ennesima favola che i libri di scuola raccontano, i romanzi narrano, i film traspongono. E lo fa con un linguaggio franco, chiaro, schietto: la lingua dei bambini che è fatta anche di immagini, perché nella mente del bambino la parola prende forma, distinta, netta: Lev è il bambino biondo, con una pesante giacca color mammola, la camicia bianca e i pantaloni verdi che attacca francobolli sul suo album, ed essere ebrei significa stare con le mani in alto davanti ai sodati, come se si fosse accusati di qualcosa.
Ma di cosa può essere accusato un bambino biondo con la giacca color mammola, la camicia bianca e i pantaloni verdi che attacca francobolli su un album? È certo che i più piccoli se lo domanderanno e sapranno rispondersi con una sincerità e una chiarezza che nessun adulto, sia pure il più grande studioso di Storia Contemporanea, Filosofia politica, Sociologia della Conoscenza, Antropologia del vattelapesca sapranno mai eguagliare. Ed è su quella chiarezza e su quella sincerità che dobbiamo contare e sperare affinché la memoria dell’Olocausto si trasformi da ricordo in lezione, una di quelle lezioni che imparare significa non dover ripetere.
Lev di Barbara Vagnozzi è un libro che fa affidamento sulla capacità dei bambini di capire (anche in inglese, giacché il testo si presenta in questa duplice veste linguistica) il peggio dell’umanità, di distinguere il male, di riconoscerlo, di respingerlo. Perché il loro cuore è ancora puro.
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