La sfida della vita ne “Il silenzio delle pietre” di Vittorino Andreoli
Il silenzio delle pietre, edito da Rizzoli, è l’ultimo romanzo del celebre psichiatra, nonché autore di numerose opere sia di narrativa sia di saggistica, Vittorino Andreoli. Il protagonista è un uomo esasperato dalla follia del proprio tempo – un allucinante 2028 in cui la vita non conta più nulla e la morte è percepita come “semplice scomparire”– emblema, come il Franz Gustav del precedente romanzo L’uomo senza identità, del drammatico disagio dell’uomo contemporaneo. Le metropoli da cui fugge, per una pausa di riflessione che possa aiutarlo a scoprire “il modo migliore di stare al mondo” sono luoghi “asociali” in cuinon esistono più i sentimenti né ladistinzione tra bene e male, le regole sono ridotte a carta straccia perché non esistono più autorità capaci di farle rispettaree la condotta dei “cittadini” è improntata solo a utilitarismo e sopraffazione reciproca; schemi comportamentali che trovano le proprie radici nei mali delle società di oggi – dal fanatismo alla politica arrogante e “farsesca”, dal mancato rispetto degli altri all’illiceità come mezzo per emergere – portati alle estreme conseguenze.L’uomo, chiamato solo “fuggiasco”, forse perché l’anonimato ben si adatta a chi sente di essere “nessuno”, evoca il citato Franz Gustav, anche lui rifugiatosi nella “terra di uccelli marini” di Inverkirkaig, nel Sutherland (e le sue parole: “ho un nome, quindi è probabile che io sia”), ma l’Uomo senza identità, più ancora che la progressiva disumanizzazione del mondo, si trovava a dover fronteggiare la frammentazione del proprio io. Con l’aiuto della bellezza e della solitudine della baia di Inverkirkaig, in cui l’unica presenza umana – per la gioia del solitario, ipocondriaco e misogino fuggiasco – è una guardiana di pecore vecchissima e scorbutica, il protagonista di Il silenzio delle pietre ritrova la capacità di sognare, riflettere sul senso della vita e apprezzarla. Ciò avviene prima di tutto grazie alpiacere della scopertae dell’osservazione delle diverse specie di uccelli che vivono nella baia, i cui risultati sono documentatiin un diario scritto in prima persona. Un diario che fa scoprire anche al lettore, ad esempio, le peculiarità dei puffin e degli implacabili skua, la grazia delle gioiose anatre che sembrano guardare l’uomo “con commiserazione” nonché i comportamenti rituali e gli straordinari processi di adattamento ambientale di aironi e gabbiani.
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Per lungo tempo la vita nel Sutherland soddisfa l’uomo, permettendogli di riflettere sulle differenze tra la metropoli che ha lasciato e il rifugio offertogli dalla baia. Un confronto in un primo tempo dipinto come netta antitesi: in cittàla morte della speranza, guerra di religione, fanatismo, falsi miti e malattie. Nella baia pace, salute, semplicità e silenzio che è “consapevolezza di quanti suoni straordinari esistano”, mentre “i pensieri scorrono tranquilli e si può arrivare a vedere la vita bella”.
Ma riflettendo sul suo passato e sulla natura umana il fuggiasco, descritto come “un nessuno” che ha dilapidato il patrimonio famigliare, inizia lentamente a capire che anche l’uomo delle città è fatto di chiaroscuri, responsabile di atrocità come i campi di concentramento e le guerre, eppure capace di amare, di elaborare i princìpi su cui fondare una società giusta pur non avendoli mai applicati e di creare inarrivabili meraviglie come la Nona Sinfonia di Beethoven o i versi di Leopardi. Così, insieme al piacere di riaprirsi a “un mondo nuovo” illuminato dalla speranza, per il protagonista di Il silenzio delle pietre arriva la nostalgia dei suoi simili, del cimitero che conserva i suoi morti e delle piccole cose “inutili” di cui era fatta la sua vita passata; la consapevolezza che l’individuo per vivere ha bisogno di una condizione di comunità, perché la natura non può sostituire i sentimenti e i vincoli affettivi che intercorrono tra gli uomini, la complicità di uno sguardo, il calore di una stretta di mano o la vicinanza di qualcuno con cui condividere la paura, la gioia e il dolore “stigma dell’umanità”.
Tutto lascia quindi presagire il prossimo rientro in città ma qualcosa gli fa cambiare idea. È il doloroso emergere della consapevolezza del “grande inganno” della natura, capace di vanificare qualunque pensiero, perché il vero interrogativo non è “il senso dell’uomo e del mondo, ma il senso dell’uomo che muore in un mondo che resta” Il protagonista del romanzo di Andreoli comprende che, forse, la follia delle città è “una risposta inconsapevole all’enigma della morte” e giunge all’amara conclusione che bisogna smettere di interrogarsi, perché tutte le specie viventi diverse dall’uomo, che trascorrono i loro giorni leggere e inconsapevoli, vivono meglio di lui (“Tutto muore… La saggezza di fronte a questo evento incomprensibile è una variazione della stupidità… E allora perché non ridere di tutto, non credere a nulla e non fare niente?”). Nell’epilogo di Il silenzio delle pietre il protagonista decide di sfidare “la realtà del mondo”, rivendicando al proprio “io”, finalmente sostituitosi al “nessuno” di un’intera vita, “la sola libertà possibile”.
Il registro stilistico varia molto: documentaristico-scientifico quando illustra i comportamenti degli animali, lirico e spesso pervaso da un senso di meraviglia nelle descrizioni della natura, capace di addentrarsi nei più oscuri meandri dell’animo umano quando racconta i pensieri del protagonista, di un’ironia dissacrante che diventa spesso corrosiva satira nel tratteggiare i personaggi più in vista sia del villaggio in cui si reca per i rifornimenti alimentari sia delle città, alcuni dei quali sembrano prestanomi di celebri personalità di oggi. In paese all’avidissimo droghiere si affiancano il tronfio “tuttologo” Achins e il docente di Oxford che ha deciso di passare gli ultimi anni di vita nei luoghi natii, a leggere i propri libri che è il primo a non capire. I personaggi del villaggio sono messi a confronto con esponenti “metropolitani”: dal cavalier Bottiglione, proveniente da una dinastia di imprenditori delle bottiglie, impareggiabile quanto a ricchezza e capacità di conquistare, sempre sorridente per fregare meglio il prossimo, alla soubrette più amata e fotografata, “donna di teatro, della sinistra e della destra”, che si mostra senza mai concedersi, al narciso intellettuale onnipresente in televisione, sempre in disaccordo con gli interlocutori che devono solo ascoltarlo, sino al cardinale Aspromonte, “una vita fulgida, altissima e levissima”, che ha il merito di aver dato alla chiesa un nuovo stile, come la distribuzione di ostie di ogni possibile gusto, compreso quello al whisky. Ma la pungente satira dell’autore va oltre, s’indirizza alla liturgia cattolica come alla psicanalisi, alle classi sociali come alle conquiste scientifiche, senza risparmiare l’amore visto come “incipit dell’odio”.
Oltre al macellaio del villaggio, che resta in secondo piano, due personaggi colpiscono per la loro positività, aprendo un piccolo spiraglio alla speranza: Fernando Alonso, un bambino brasiliano, e Katherine MacLeod, una dodicenne figlia di pastori del Sutherland. Due ragazzini deprivati di ciò che ha la grande maggioranza dei loro coetanei e molto diversi l’uno dall’altro – dedito a cose ben percepibili dai sensi lui, mentre lei si dedica alla contemplazione dell’orizzonte, davanti al quale percepisce i morti come “stelle spente” che continuano a esistere anche perché “nulla scompare mai” – ma uniti dalla voglia di capire il mondo, in cui per loro “la felicità è possibile”.
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Un bagliore che ridimensiona il corrosivo pessimismo di Andreoli, suggerendo che voglia invitarci all’ennesima sfida:riuscire, nonostante tutto sembri remare contro, a recuperare la pienezza della nostra umanità e la nostra capacità di vivere insieme. Una sfida per vincere la quale è necessario, anche per chi non possiede un credo religioso, non lasciarsi sopraffare dal pensiero della morte ma elaborarne una visione capace di accettarla quale naturale compimento della vita, come fa Katherine, acquisendo al contempo la capacità di gioire delle piccole cose e di stupirsi che hanno sia lei sia Fernando. La loro giovanissima età suscita il dubbio, soprattutto se si confronta la loro vicenda col tragico percorso compiuto dal “fuggiasco”, che Andreoli le ritenga virtù destinate a perdersi con la maturità, ma forse proprio la capacità di conservarle nel tempo è l’altro grande oggetto della sfida evocata dal romanzo. Parafrasando il motto femminista: “né streghe né madonne ma solo donne” si potrebbe dire: “né nessuno né superuomini ma solo uomini”. Uomini che scelgono non di sfidare la morte ma, come fa il piccolo Fernando di Il silenzio delle pietre, una via più coraggiosa e difficile: sfidare la vita, cercando di renderla degna d’essere vissuta.
Per la prima foto, copyright: Ilnur Kalimullin.
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