La seconda vita di Cesário Verde
Se ci si chiede chi è stato Cesário Verde, si dovrebbe rispondere così: nato il 25 Febbraio del 1855 a Lisbona, lavorò per tutta la sua breve vita come negoziante nell’attività di famiglia in pieno centro città, e come agricoltore presso la tenuta di Linda-a-Pastora di proprietà del padre. Morì di tubercolosi a soli trentuno anni il 19 Luglio 1886. Una vita ordinaria come tante altre, finita prematuramente come tante altre. Cesário Verde aveva una grande passione per le lettere e ha avuto modo di pubblicare qualche poesia in alcuni periodici, ma senza ricevere mai nessun elogio dalla critica che, quando non lo attaccava ferocemente, lo lasciava scivolar via nell’indifferenza. Lo stesso poeta, in una lettera, scrive: «una mia poesia recente, pubblicata in una carta ben stampata, pulita, commemorativa di Camões, non ha ottenuto né uno sguardo, né un sorriso […]. Nessuno ne ha scritto, nessuno ne ha parlato […]: nessuno ne ha detto bene, nessuno ne ha detto male!». Se ci si chiede chi è stato Cesário Verde, verrebbe da rispondere: un commerciante che ha provato a fare poesia, senza riuscirci troppo, non lasciando che pochi fogli sparsi. Ma se si cambiano i termini della domanda, trasformandola non più in chi è stato, bensì chi è Cesário Verde, allora ecco che la faccenda assume tutta un’altra consistenza.
Cesário Verde è oggi uno dei più importanti poeti portoghesi. Dopo la sua morte, sembra che la poesia lusofona – e non solo poesia – non possa più fare a meno di lui. I suoi fogli sono stati raccolti dall’amico Silva Pinto che nel 1887 ha dato alle stampe O Livro de Cesário Verde, pietra miliare della letteratura portoghese.
Cesário ha stravolto i paradigmi poetici del suo tempo, proponendo innovazioni tali da fare di lui il precursore di modernismo e neo-realismo. A prima vista, il tratto più rilevante della sua poetica è una convinta presa di distanza dal lirismo tradizionale romantico in favore di forte avvicinamento alla concreta solidità della realtà fenomenica. «A me, quel che mi circonda è quello che mi preoccupa»: lontane dall’estasi delle muse e dalla grandezza degli eroi, le creazioni di Cesário si impregnano di quotidiana materia.
È un camminatore che si muove curioso tra le vie di Lisbona buttando sguardi sinceri sul mondo che gli scorre di fronte. È un occhio attento che si stampa sui dettagli di una città in fermento, Cesário è la penna che dipinge su un foglio bianco le immagini fissate in testa. Il poeta-pittore che tutto capta e traduce in disegni di parole. Eppure la sua poetica non va intesa come mera presa del reale, al contrario la percezione funge da supporto alle trasfigurazioni dell’io poetico. Più che riprodurre la quotidianità, egli la riproduce, scavalcando di gran lunga il mero principio mimetico: non dipinge l’oggetto, ma i sentimenti e le sensazioni che l’oggetto induce. Per Cesário, la poesia è “fuori”, negli aspetti grotteschi e ridicoli della realtà, è nelle strade intrise di popolo che vagheggia e sbanda senza capirsi, è nell’insensato banale che, tradotto in versi, si carica di senso e vita poetica. La statica realtà oggettiva si fonde con la realtà soggettiva che la articola e la eleva. Per questo è affare complicato infilare Cesário Verde in una qualche etichetta critica; se da un lato si avvicina chiaramente alla corrente realista, passando per quella naturalista, dall’altro se ne distanzia per entrare in campi semantici simbolisti o parnassiani. Può essere un’impressionista, se si vuole: nel poema Da tarde [Di pomeriggio] pare di avere davanti agli occhi la Colazione sull’erba di Manet. Quel che conta è evitare di infilarlo a forza in categorie che spesso non lo comprendono appieno e rischiano solo di limitarne il potenziale interpretativo; conviene piuttosto affidarsi a delle linee guida, delle tracce che mappino le strade principali della sua poetica, lasciando aperte tutte le vie che ancora non sono state trovate. Quel che è chiaro è che con Cesário il verso in Portogallo si fa prosaico, narrativo, con un linguaggio preciso e, a tratti, tecnico; in una parola,il verso si fa moderno.
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Proprio come la Lisbona di fine XIX secolo, che è una città in evoluzione: la modernizzazione allarga le strade e si prepara ad accogliere la moltitudine che verrà. È una tessuto urbano in piena metamorfosi che sta proiettandosi verso i nuovi orizzonti elettrici, veloci e connettivi. Cesário coglie e riflette tutto questo fermento, abbassando i suoi versi a terra come le schiene ricurve degli uomini al lavoro che osserva nei suoi lunghi andirivieni per la città. È, come si dice, il poeta di Lisbona. In O Sentimento de umOcidental [Il Sentimento di un occidentale], la sua poesia più intensa e conosciuta, operai come pipistrelli si adoperano per costruire in fretta una città (al contrario?) mentre nelle vie strette dilaga il germe dell’infezione. È una società che cambia senza neppure sapere come, rappresentata da un re che più non rappresenta quella borghesia in ascesa attorno alla quale si concentra il potere economico. La tormentata dialettica tra vecchio e nuovo, tra quel che cambia e quel che resta, si tinge dei colori della malinconia; Cesário inaugura la stagione poetica del viandante malinconico che ordina il mondo nel suoi parametri soggettivi, aspetto che il grande Pessoa– che lo chiamerà “maestro” – riprenderà con forza.
In un’epoca in cui la poesia in Portogallo si nutriva di versi aulici e melodrammatici di poeti – direbbe Montale– laureati, Cesário arriva come un fulmine a ciel sereno. Un commerciante che costruisce versi con le rumorose e stonate ferramenta della quotidianità, applicandovi tutta la sua immaginazione trasfigurante per oltrepassarne la statica percezione, non può essere preso sul serio, e difatti attorno a lui dilaga il silenzio. Un vuoto non indolore per Cesário, che ne soffre parecchio. Quanto può quest’incomprensione aver modellato la sua immaginazione? Forse grande parte della sua opera si può leggere come la tormentata dialettica tra due mondi, quello contemplativo del poeta e quello effettuale della vita, che si sfregano e si scontrano fino a generare le scintille dei versi. L’eterna condizione dell’io artistico che necessita di riconoscenza e di appartenenza alla realtà, ma allo stesso tempo la rifugge, trovando riparo nel proprio mondo interiore. Tutto il discorso del poema Tabaccheria di Pessoa è centrato su questo aspetto: la speculazione metafisica dell’eteronimo Álvaro de Campos trova sollievo solo quando il signor Esteves, uscendo dalla tabaccheria, alza lo sguardo, riconosce il poeta affacciato alla finestra di fronte e gli accenna un saluto. È il mondo reale, la quotidianità che si incarna in Esteves – Esteves senza metafisica – e riconosce il poeta assorto in filosofiche quanto tormentate meditazioni, riconsegnando e includendolo, con un gesto, nel mondo.
Ma si sa, un poeta è grande quando il suo “io” diventa “noi”: la malinconia di Cesário non è uno scontro tra lui e la vita, ma tra la collettività che tramite lui ha preso forma e la vita che aveva sotto gli occhi. L’io poetico si fonde – in anticipo, è il fardello della genialità – con “il sentimento degli occidentali”, tastandone il polso, registrando il respiro affannato di una caotica corsa verso il progresso.
Dall’attrito tra realtà e rielaborazione, Cesário ha tirato fuori i suoi versi. Allo stesso modo, dall’attrito tra la sua vita reale e la rielaborazione della stessa, se ne è tirato fuori un poeta. Un’altra vita, la seconda vita di Cesário Verde.
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