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La scoperta di un nonno fascista. “Stirpe e vergogna” di Michela Marzano

La scoperta di un nonno fascista. “Stirpe e vergogna” di Michela MarzanoCon Stirpe e vergogna (Rizzoli, 2021) Michela Marzano, filosofa, giornalista e scrittrice, ci presenta un libro che è un po’ romanzo e un po’ memoir, in cui affronta un tema strettamente legato alla nostra storia recente: come è stato vissuto nelle famiglie italiane il rapporto con genitori e nonni che avevano aderito al fascismo?

La domanda Marzano se l’è posta nel momento in cui ha appreso, esaminando il certificato di battesimo di suo padre, che gli era stato dato Benito come secondo o terzo nome, cosa che le appariva assurda ritenendo che la sua fosse una famiglia di convinti antifascisti. In seguito però, cercando tra i ricordi di famiglia sopravvissuti ai traslochi e alla scomparsa degli esponenti delle generazioni precedenti, ha scoperto che il nonno paterno, magistrato salentino scomparso quando lei aveva appena sei anni, aveva conservato con cura tutti i cimeli attestanti un percorso esemplare all’interno del Partito Nazionale Fascista.

Se poteva apparire scontato che un magistrato italiano al lavoro negli anni Trenta del ventesimo secolo fosse iscritto al PNF, condizione resa praticamente obbligatoria sotto il regime per chi faceva parte della pubblica amministrazione, non era altrettanto scontato scoprire che il nonno non stava fra coloro che avevano aderito per necessità, ma aveva fatto parte della cerchia ristretta dei fedelissimi di Mussolini, suoi seguaci fin da prima della presa del potere e ricordati come avanguardisti o addirittura sansepolcrini (così chiamati perché il primo nucleo di poche decine di persone si riuniva a Milano in Piazza San Sepolcro).

Ed ecco che una nipote cresciuta da un padre socialista piomba nello sconforto e, partendo dall’esame dei cimeli ritrovati, si dedica a un’appassionata e dolorosa ricerca per ricostruire la vita di questo nonno mai veramente conosciuto e cercare di comprenderne le scelte: ricerca che diventa anche un esame dei complessi e difficili rapporti che regnano fra l’autrice, il padre e la madre, e fra gli stessi genitori, come ci ha raccontato Michela Marzano nel corso di un incontro online.

 

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L’impressione che si ha leggendo il suo libro è che questa ricerca della verità sulla vita del nonno sia stata lunga, faticosa e molto dolorosa. Quando ha deciso di renderla pubblica e quanto le è costato?

Comincio a scrivere quando non posso dire di no a una storia, a delle immagini o a delle parole, oppure a una domanda che a un certo punto mi si pone, anche se poi resisto e cerco di mettere un po’ di distanza tra me e queste urgenze. Qui il punto di partenza è stato che, mentre ero già emozionata per il fatto che stava per uscire il mio libroIdda, mi è arrivata la notizia che mio fratello sarebbe diventato papà. In me è scattato un meccanismo da un lato di grande contentezza, ma dall’altro del chiedermi “se oltre alle mie amiche, anche mio fratello, che è gay, ha avuto un figlio, perché io no?”, e questo proprio mentre stavo entrando in menopausa e mi rendevo conto che per me non sarebbe stato più possibile diventare madre.

Questa domanda ha iniziato ad abitare le mie giornate, anche se volevo concentrarmi sull’uscita del nuovo libro. Poi è nato Jacopo e a quel punto c’era qualcosa che dovevo assolutamente capire, ma per farlo dovevo tornare indietro e non solo sulla mia storia, come avevo già fatto con l’analisi e scrivendo Volevo essere una farfalla ormai dieci anni fa: dovevo tornare indietro con le generazioni. Iniziando a cercare documenti di famiglia ho trovato la copia del certificato di battesimo di mio padre, dove ho scoperto per la prima volta che tra i nomi figurava un Benito che non avevo mai sentito e che per me è stato un punto di non ritorno.

L’idea di scrivere un libro è venuta perché mi sono resa conto dell’enormità dei segreti di famiglia che coinvolgevano tantissime persone della mia generazione. Nonostante le battaglie fatte, noi in realtà abbiamo spesso scoperto che il nostro non era un passato di famiglie resistenti e di partigiani, ma un passato fortemente fascista.

Non volevo raccontare questa storia in bianco e nero, ma cercando di capire anche le sfumature, per incoraggiare tutti a fare la stessa cosa, perché in realtà noi italiani non abbiamo fatto i conti col passato e con la nostra storia: questo si vede dalla situazione dell’Italia di oggi e dai rigurgiti di fascismo che proprio in questi giorni stanno tornando, dalla difficoltà che molti di noi hanno a parlare di nonni o zii come se ci fosse una vergogna. Il tema della vergogna è molto femminile: le donne si vergognano molto di più nel riaprire le pagine delle loro storie, come se si sentissero direttamente responsabili.

Ho quindi deciso di scrivere il libro, ma ho avuto tanti momenti di scoraggiamento, soprattutto perché quando ho pensato di partire per fare le mie ricerche nei vari archivi è scoppiata la pandemia che mi ha costretta a rallentare e prendere tempo, anche se questo forse mi è poi servito per pensare.

La scoperta di un nonno fascista. “Stirpe e vergogna” di Michela Marzano

Durante la lettura ho notato un certo masochismo a narrare anche degli aspetti che le persone tendono a nascondere, come le problematiche in ambito medico. Ne ho apprezzato il coraggio ma volevo sapere cosa l’ha spinta a metterci così tanto di sé stessa e cosa pensa che questo potrebbe scatenare nel lettore.

Quando si raccontano cose delicate, difficili e sensibili che hanno vissuto altre persone deve esserci anche la possibilità di mettersi in scena personalmente, perché altrimenti si diventa solo un io che giudica. Per me era necessario far capire ai lettori che non stavo giocando e raccontando una storia che mi scivolava addosso, ma parlavo di qualcosa che per me era fondamentale e vitale, e per farlo dovevo includere il mio vissuto e il mio corpo con le sue fragilità. A tutti è capitato di leggere libri scritti sul padre o la madre dell’autore. Io spesso ne sono rimasta colpita perché ci ho visto lo sguardo giudicante di chi è stato vittima, ma non si rimette in discussione. Per me è necessario andare a scavare anche all’interno di noi stessi ed essere inesorabili, altrimenti la scrittura perde interesse.

Dovevo quindi raccontare la mia storia per contrastare l’amnesia della generazione dei miei genitori. Tante persone della mia età stanno riaprendo il capitolo del passato dopo che la generazione precedente lo aveva chiuso, forse perché era troppo presto o troppo doloroso.

 

Mi è piaciuto in un capitolo il gioco tra amnesia e amnistia. Sono parole che apparentemente non hanno nulla in comune ma in questo contesto fanno riflettere. È stato un accostamento casuale o frutto della lunga ricerca che ha fatto?

È stato come mettere insieme i pezzi di un puzzle. Da un lato c’era il tentativo di capire cos’era successo alla mia famiglia, dall’altro per capirlo c’era la necessità di contestualizzarlo, cioè comprendere cos’era successo a livello nazionale.

Mi sono resa conto che, dopo il periodo delle epurazioni fra il 1944 e il 1945, l’amnistia voluta nel 1946 addirittura da Togliatti, cosa che mi aveva colpito profondamente, era in realtà espressione della volontà di tutta la classe politica di passare una spugna su quanto accaduto in precedenza.

Questo non è successo solo in Italia: nell’immediato dopoguerra tutti i paesi europei hanno chiuso nel cassetto il passato, per cercare di pacificare e per i timori della guerra fredda.

In Italia c’era stata una guerra civile che aveva causato molto dolore, e l’idea era che per andare avanti fosse meglio voltare pagina e ricominciare da capo, dimenticando anche da un punto di vista giuridico con l’amnistia e il reintegro delle persone epurate tra il 1946 e il 1955. Questo ha permesso a tante famiglie di non parlarne più e di non riaprire questo capitolo con figli e nipoti.

In Francia e in Germania, però, a un certo punto questo capitolo del passato è stato riaperto, mentre da noi è rimasto chiuso. Solo nel 2018 il presidente Mattarella ha fatto un discorso in cui reintegra, riassume e nomina la colpa, in un’epoca di forte negazionismo.

Ho impiegato un po’ a capire che l’operazione di rimozione fatta a livello politico veniva fatta a livello individuale nelle famiglie: non “i panni sporchi si lavano in famiglia” ma “i panni sporchi non si lavano, si mettono nell’armadio e lo si chiude”.

Mio nonno non ha mai parlato con i figli di ciò che era successo ma ha conservato tutto, tanto che nel grandissimo disordine dei cimeli familiari sono riuscita a trovare elementi fondamentali per la mia storia privata e per quella pubblica.

Si dimentica e si conserva, ma per chi si conserva? A me piace credere che tutte quelle carte fossero lì ad aspettarmi, e che sarei dovuta arrivare io a fare i conti con la storia di famiglia. Io non credo alla casualità, lo ritengo un filo che aspetta di essere raccolto.

La scoperta di un nonno fascista. “Stirpe e vergogna” di Michela Marzano

Nei libri precedenti ha parlato di donne, di madri e figlie, mentre stavolta parla del nonno e del padre, di un mondo maschile e del suo rapporto con questo mondo.

Quando portavo in giro i romanzi precedenti molti lettori e lettrici mi hanno chiesto perché le figure maschili fossero praticamente inesistenti in questi libri. Adesso sono sicura che mi chiederanno perché le figure femminili sono così poco presenti in questa storia, ma stavolta dovevo fare i conti con gli elementi maschili e da lì capire perché finora mi fossi concentrata sulla perdita al femminile. Qui sono i maschi a perdere.

In me c’è sempre il tema della perdita e qui ho provato a raccontarlo in un altro modo.

Volevo essere una farfalla è prettamente autobiografico e volutamente non costruito, L’amore che mi resta e Idda sono pura fiction anche se nascono da una scintilla autobiografica. Il puro memoir non mi soddisfaceva, perciò con Stirpe e vergogna ho cercato di uscire da tutti i generi letterari e crearne uno che mi soddisfacesse. Qui c’è la narrazione autobiografica, c’è la dimensione generazionale, quella storica e quella riflessiva, ma c’è anche la parte di fiction perché tante scene che racconto sono completamente inventate, oltre a quelle che trascrivo come mi sono state raccontate.

Se metto in scena mio nonno e mia nonna posso fare solo fiction.

Non voglio sembrare presuntuosa, ma credo che ci sia la ricerca da parte di tantissimi scrittori e scrittrici che cercano di uscire dalla forma romanzo tradizionale e che sperimentano. Si prova a forzare anche i generi in cerca di nuovi equilibri.

 

Alla fine del percorso, la pubblicazione ha cambiato qualcosa nei suoi rapporti familiari?

Mio fratello ha letto il libro, e per me era molto importante che lo facesse prima dell’uscita, e ha detto una cosa che mi ha fatto molta tenerezza: “Ancora una volta una lettera d’amore a tuo padre”. Mia madre ha letto il libro e ha reagito da lettrice: “A me è piaciuta tantissimo la storia, ma mi sarebbe piaciuta molto di più se io non ci fossi stata dentro”. Con mio padre è più complicato perché non ha mai letto nessuno dei miei libri e non so se leggerà questo. So però che ha letto delle recensioni e non ha reagito bene, perché ha detto: “Le cose non stavano esattamente così, non c’era nessun segreto”. Ma allora perché noi non abbiamo mai parlato del passato? Questo è un segreto.

Avendo scelto di riaprire i giochi, sono pronta ad affrontare la reazione di altri parenti, ma ho deciso di uscire dal silenzio anche per lasciare qualcosa in eredità a mio nipote. Da quando ho iniziato a lavorare a questo libro sento di essere anche in pace con il mio problema di non aver avuto figli. Ho un nipote, sono una zia, ne sono felice e vado bene così.

 

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Avrebbe cercato comunque di fare pace col passato familiare anche senza la nascita del nipotino?

La nascita di Jacopo mi ha messa davanti al fatto che non avevo fatto i conti col mio passato, anche se credevo di averli già fatti attraverso l’analisi: in effetti, mancava qualcosa.

Io ho passato la vita a fare ricerca, a chiedere “perché?” fin da bambina. Mi rispondevano sempre “quando sarai grande te lo spiegherò”, tanto che un giorno ho chiesto a mio padre “ma se quando sarò grande mi sarò dimenticata tutte le domande che ti faccio adesso?”

Dev’essere per questo che ho studiato filosofia, anche se poi la mia vera passione è sempre stata la scrittura.

 

Com’è stato calarsi nel comportamento e nella mente di suo nonno, che conosceva appena e che stava scoprendo negativamente, quando ha scritto la parte di fiction che lo riguarda? Come potrebbe essere la sua interazione con suo nonno oggi?

Credo di non aver scelto, ma di aver proceduto come per altri libri: in L’amore che mi resta ho scritto da madre in prima persona, eppure io non sono madre. Ci sono le letture, lo studio, ma poi quando scrivo mi immedesimo. Anche in questo caso sono diventata mio nonno, tanto che quando ho letto la sentenza di epurazione mi sono sentita soffocare e provavo vergogna al posto suo.

Oggi penso che sommergerei mio nonno di domande, non tanto su quello che ha fatto, ma sulla sua scelta di mantenere il silenzio pur conservando tutto. Questo però lo dico adesso che ho cinquantun anni, ma faccio ancora fatica a comprendere perché certe domande non siano state fatte al nonno da mio padre che era suo figlio.


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