La saga Yeruldelgger, una chiacchierata con Ian Manook
Sullo sfondo di un uggioso pomeriggio romano, davanti un copioso buffet di pasticcini, la casa editrice Fazi ha ospitato, il sedici marzo scorso, l’incontro con lo scrittore Patrick Manouklan, entrato nel cuore di tutti gli amanti del giallo con lo pseudonimo di Ian Manook. Sotto questa firma l’autore francese di origini armene ha sigillato il successo internazionale dei suoi primi tre romanzi, la saga polar di Yeruldelgger, o meglio di Yeruldelgger Khaltar Guichyguinnkhen. Se non avete mai sentito di nessun personaggio di polar francese che si chiamasse così, siete sulla strada giusta. Yeruldelgger, infatti, è nato e cresciuto tra i nomadi della steppa, forgiando il suo animo nella spiritualità buddhista. È un detective della squadra omicidi di Ulan Bator e le sue indagini hanno come sfondo il suo paese natale, la Mongolia. È un uomo che ha perso tutto, il cui unico appiglio alla vita sembra essere sua figlia Saraa, che lo accusa della morte della sorellina e della pazzia della madre, e il suo lavoro, le sue indagini.
È impossibile riassumere la trama pregna di eventi dei tre romanzi della saga. Per dare solo un’idea della loro potenza narrativa basti dire che Tempi selvaggi, Morte nella steppa e La morte nomade sono una combinazione micidiale di crude scene del crimine, di personaggi irrompenti, di sentimenti contrastanti, di organizzazioni criminali, di natura e urbanizzazione, di sciamanesimo e di tradizioni nomadiche. La trama non si stacca mai dalla grande protagonista che è la Mongolia, descrivendola nella sua immensa bellezza e senza nasconderne gli orrori.
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Dopo la recente pubblicazione del terzo capitolo della saga nella sua traduzione italiana a opera di Maurizio Ferrara per la casa editrice Fazi, Ian Manook ha deciso di venire a Roma per parlare di La morte nomade ai suoi lettori italiani. Questo libro, come ci ha detto, non lo ha scritto tanto per se stesso o per i lettori, come aveva fatto per i precedenti due, quanto per lo stesso Yeruldelgger, per finire la sua storia come si merita e per fare di lui non solo il personaggio di un libro ma una vera e propria leggenda errante.
Ian Manook, durante la nostra piacevole chiacchierata, ci ha parlato dei suoi romanzi, del processo di scrittura, dei suoi viaggi e di cosa significa essere uno scrittore nomade, figlio della diaspora armena.
Se dovessero accusarla di appropriazione culturale dal punto di vista di un occidentale che scrive di un contesto orientale, cosa risponderebbe?
Noi occidentali, delle volte, abbiamo una visione del resto del mondo basata sui nostri pregiudizi. A questo proposito voglio raccontarvi un aneddoto. Dopo gli attacchi a «Charlie Hebdo», che hanno ucciso molti miei amici, alcuni di noi hanno fatto degli interventi nelle scuole. Il mio è stato in un istituto vicino alla sede del giornale e il tema era il razzismo. La prima cosa che ho chiesto è stata: chi pensa di essere razzista alzi la mano. Io ho alzato la mano per primo, e tutti sono rimasti di stucco. Siamo tutti razzisti, pur non volendo, a causa del condizionamento sociale ma ogni volta che ci rendiamo conto di esserlo dobbiamo correggerci. Io non ho scritto un romanzo mongolo ma un romanzo sulla Mongolia. Così il mio libro non è un libro scritto da un occidentale sull’oriente, ma da un occidentale che sa di star scrivendo sull’oriente. Ho cercato di fuggire pregiudizi e ambientazioni da cartolina e portare nel romanzo quella che è stata la mia esperienza di viaggiatore.
Di ogni personaggio, di ogni aspetto, lei mostra la luce e l’ombra, come per le yurte. All’inizio del libro tutti sogniamo di vivere in una di queste ma poi, quando ci mette davanti le baraccopoli forzate di Ulan Bator, la nostra idea cambia…
Questa domanda è legata alla precedente, le cose non sono bianche o nere. Si scoprono. Questo è il compito del viaggiatore. La prima volta che si entra in una yurta si ha l’idea che sia una dimora fantastica, ma poi ci si rende conto che dietro c’è una vita molto difficile. Io non sono uno scrittore naive, ogni volta che scrivo cerco di dare l’idea dello sviluppo del mio processo di comprensione.
A questo proposito, troppe volte, si trovando descrizioni caricaturali di altri paesi…
Sì, capita. Per questo in Francia è nato un tipo di scrittura, soprattutto nel giallo, chiamata “etnologica”, ma io non amo questa descrizione perché l’etnologia è una scienza, la letteratura no. Per questo preferisco chiamarla scrittura nomade. Ho iniziato a scrivere Yeruldelgger come una sfida con mia figlia: scrivere due libri all’anno di genere differente e sotto diversi pseudonimi. Riguardando tutti gli appunti dei miei racconti non finiti, mi sono imbattuto in un personaggio che avevo creato vent’anni prima. Si chiamava Donelli ed era un poliziotto americano di New York. Volevo trasportarlo in un’ambientazione nuova. Tra tutti i miei ricordi di viaggio ho scelto la Mongolia. Dopo due pagine ho subito capito che la cultura sciamanica della Mongolia avrebbe dato una sfumatura differente ai temi principali del giallo, come la morte, la vendetta, la redenzione, la violenza, e che avrebbe potuto rendere il tutto più interessante. Scegliere un ambiente lontano, dislocare il giallo, mi ha permesso di parlare di molte tematiche, in maniera più libera, senza essere considerato di parte.
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Perché poi ha deciso di spostare parte del discorso nel mondo occidentale?
A volte ti servono delle cose per ridare al romanzo una dimensione mondiale, non posso parlare della modernizzazione, della globalizzazione, che affliggono la Mongolia, senza parlare del mondo. In Mongolia esistono miniere che funzionano senza lavoratori, che vanno avanti solo attraverso degli operatori al computer. Una miniera nel sud della Mongolia dà lavoro a 10 mila persone, e nel giro di pochi anni non ci sarà più lavoro. Vado dall’altra parte del mondo per dare una prospettiva completa. Una piccola corruzione a Utlan Bator si converte in milioni a New York.
Come viaggiava lei da giovane?
Viaggiavo, con capelli lunghi, sandali e zaino in spalla. Mettendoci giorni per andare da un paese all’altro, in autostop, e trovandomi lavori sulle navi per attraversare il mare. Nel 1969 ho fatto 40 mila km di autostop negli Stati Uniti. Ho vissuto un anno nel Mato Grosso, dove ci sono le paludi più grandi del mondo, con tutta l’incoscienza della giovinezza. Io ho scritto un piccolo libro sui viaggi, pubblicato da Ediciclo, in questo libro e Nell’arte di non fare niente si trova tutta la mia filosofia del viaggio, e descrivo anche come ho conosciuto un personaggio che si chiamava Yeruldelgger.
Ora aspettiamo il suo prossimo romanzo, che si vocifera sarà una saga sugli armeni.
Sì, la sto finendo. La consegnerò a dicembre. È un lavoro molto diverso. È una storia di cent’anni dal 1915 al 2015. Parto dalla storia di mia nonna, che nel 2015 ha visto tutta la sua famiglia massacrata, per poi far parte di una colonia di rifugiati destinati a morire nel deserto del Sinai. Si è salvata diventando schiava di un uomo turco che cercava delle damigelle per la figlia.
Tutto il mio modo di pensare e di scrivere è legato al fatto che sono figlio di una diaspora. La diaspora ti rende legato al tuo popolo solo attraverso la cultura, senza passare per un luogo, per una patria, è un legame che supera i confini geografici. La tradizione armena sopravvive attraverso la lingua, il cibo, i canti, le tradizioni. Sono un cittadino francese di nazionalità armena.
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Quando ha capito di voler fare lo scrittore?
Io ho sempre scritto, ho iniziato a quindici anni. Ho pagato tutti i miei studi scrivendo, dopo ho continuato inventando, quasi ogni giorno, delle storie che non ho mai terminato. Poi ho fondato due ditte, e il lavoro giornaliero mi impediva di dedicarmi alla scrittura. Ho sempre saputo che scrivere mi piaceva. Il primo libro l’ho terminato per una sfida con mia figlia, per molti anni lei ha letto regolarmente tutte le mie bozze non finite, finché, quando è andata a vivere a Buenos Aires, mi ha detto: «Io non leggerò più nulla finché non finirai qualcosa!» Ed ecco lì che è nato Yeruldelgger.
Sembra che le donne occupino un ruolo fondamentale nella sua vita, e nel suo romanzo le figure femminili sono sorprendenti.
Per quanto riguarda la Mongolia, le donne sono uguali agli uomini, lavorano come loro e fanno anche di più, ma sono uguali anche nel potere decisionale all’interno della società. Nella mia vita io ho sempre avuto a che fare con donne forti. Entrambe le mie nonne sono state donne incredibili. Anche gli uomini, ma quello che mi ha sempre affascinato non sono quelli che prendono parte all’azione, ma quelli che la subiscono, e, in passato, questo è stato molte volte il ruolo della donna; come quando gli uomini andavano in guerra e le mogli rimanevano a casa, ad aspettare il verdetto irrevocabile di qualcosa su cui non avevano avuto nessun potere. Subire un tale dolore richiede una grande forza. Non si può costruire qualcosa di forte senza che ci sia qualcosa di forte alla base. Non possono esistere personaggi maschili forti senza dei forti personaggi femminili.
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Il suo libro sembra essere guidato da due ritmi differenti, quello più lento della parte narrativa e quello veloce e incalzante dei dialoghi.
Ho voluto fare due cose in questo libro. Prima di tutto non descrivere i personaggi, di Yeruldelgger descrivo solo le mani, di Oyun in tre libri non dico quasi nulla, di Solongo solo che è elegante e con i capelli lunghi. Per me la comprensione dei personaggi passa attraverso i dialoghi, attraverso il modo di parlare. Tante volte capita di farci un’idea di una persona che poi cambia appena entriamo in contatto con il suo modo di esprimersi, con il suo gergo personale. Ho cercato inoltre di scrivere con due ritmi differenti. I dialoghi sono formati da frasi più corte e scandite, utilizzo molte frasi senza verbo. Mentre durante le descrizioni uso frasi più lunghe, e rendo il ritmo più lento. Mi fa molto piacere che la trama piaccia ai miei lettori ma spero che anche la mia scrittura piaccia, perché questa è la mia prima fonte di piacere. Quando si scrive un libro di 500 pagine è impossibile fare di ogni frase un capolavoro, ma ci sono alcuni punti che mi sono più a cuore, come la descrizione della steppa o della neve all’inizio del secondo romanzo.
Una domanda sulla cucina: lei ha assaggiato tutto di quello di cui parla? Anche il tè al burro salato?
Certo, anche questo è viaggiare! Il tè con il burro salato è buonissimo, non dobbiamo pensare a chili di sale sciolti nel tè. Per quanto riguarda il burro bisogna pensare alla sopravvivenza in un ambiente ostile, hanno bisogno del burro, per prendere grassi e proteine contro il freddo.
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