La reazione di Cesare Pavese quando vinse il Premio Strega
Cesare Pavese vinse il Premio Strega nel 1950, pochi mesi prima di suicidarsi, con La bella estate, che oltre al romanzo omonimo include altri due romanzi brevi, Il diavolo tra le colline e Tra donne sole.
A raccontare la reazione di Pavese all’annuncio della vittoria è Leone Piccioni, nell’introduzione all’edizione del 1968 de La bella estate nella collana I Premi Strega diretta da Maria Bellonci per le edizioni del Club degli Editori.
Piccioni, critico letterario tra i più apprezzati da Pavese, utilizza come materiale di riferimento non solo gli inserti dei diari ma anche la sua stessa testimonianza diretta in quanto presente alla serata di premiazione.
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Il Premio Strega si assegnava in quell’anno 1950 sulla terrazza di un albergo dalle parti di Trinità dei Monti, e c’era l’aria ancora fervente della Roma del dopoguerra, aria non poco confusa negli impatti tra politica, letteratura, mondanità. Vien fatto di pensare che si desse allora molto maggiore importanza alle manifestazioni culturali, del resto assai più rare: forse perfino troppa, raccogliendo anche ruggiti o sospiri di letterati. (Via via le cose sono un po’ mutate, e non c’è, tutto compreso, da rallegrarsene: di quella importanza ben poco oggi è rimasto sia in sede politico-sociale che in sede mondana).
Tardo giugno 1950: illuminazione assai forte su quella terrazza, cineoperatori (la TV non c’era ancora), gente assai fitta, un caldo da scoppiare: era notte ma si sudava, il pavimento (asfalto, non so, mattonelle) ribolliva: vestiti leggeri, per quanto se ne volesse, un bel caldo!
Per la prima volta a me accadde di vedere quella sera Cesare Pavese di persona. Arrivò in atteggiamento assai singolare, e per me indimenticabile, asciutto e schivo, a disagio ma anche un poco abbandonato a quell’insolito piacere (un piacere che avrebbe dovuto essergli sgradito, ma lì per lì, sgradito davvero non gli era), da pochissimi conosciuto personalmente, ma da tutti amato o avversato come scrittore e come personaggio, già un mito vivo per la letteratura di allora, in un momento per lui cruciale anche rispetto a quella che di lì a poco fu la volontaria fine della sua vita.
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Vestito di chiaro, profilo teso sotto gli occhiali, anche se rispondeva sorridendo ai saluti, e poi ai complimenti – reso noto l’esito della votazione – non mutava lo stato della sua tensione. Vinse a mani basse, com’era giusto, ampiamente doppiando gli altri candidati della «cinquina», con enorme distacco di voti anche dal secondo: e di rado premio letterario fu meglio assegnato di questo dato a Pavese per La bella estate. Di fronte a saluti, ad applausi, a complimenti, Pavese cercava piuttosto rifugio nello sguardo e nella vicinanza della bella attrice americana Doris Dowling, sorella di Costance, di cui Pavese era, in quel momento, molto innamorato, ma già in una profonda crisi sentimentale come poi, dalle date del diario, Mestiere di vivere, fu facile ricostruire. (E che sorte tragica e amara toccò anche a quelle due splendide sorelle!).
Per quella sera del Premio, nel diario è scritto:
«Domattina parto per Roma. Quante volte dirò ancora queste parole? È una beatitudine. Indubbio. Ma quante volte la godrò ancora? E poi? Questo viaggio ha l’aria di essere il mio massimo trionfo. Premio mondano, D. (oris) che mi parlerà – tutto il dolce senza l’amaro. E poi? e poi? Lo sai che sono passati i due mesi? E che, any moment, può tornare?» (22 giugno).
(Ed era certo Costance che poteva «tornare»: «For C. Ripness is all» fu la dedica de La luna e i falò. «To C. from C.» sarà quella di Verrà la morte ed avrà i tuoi occhi).
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Poi, passati venti giorni (14 luglio):
«Tornato da Roma, da un pezzo. A Roma, apoteosi. E con questo? Ci siamo. Tutto crolla. L’ultima dolcezza l’ho avuta da D. (oris), non da lei. Lo stoicismo è il suicidio. Del resto sui fronti la gente ha ricominciato a morire». (La guerra di Corea era in pieno corso).
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