La quiete in attesa della guerra. “La riva delle Sirti” di Julien Gracq
La riva delle Sirti, di Julien Gracq, uscì in Francia nel 1951 e riscosse un successo sicuro e immediato, al punto da valere al suo autore il conferimento del prestigioso Premio Goncourt – il quale, con un gesto tanto clamoroso quanto perfettamente in linea con le sue idee e dichiarazioni, lo rifiutò. In Italia l’opera venne pubblicata un anno dopo nella collana Medusa di Mondadori nella traduzione di Mario Bonfantini, ma non ricevette particolare attenzione. La ristampa dell’editore Guida, nel 1990, non riuscì a smuovere lo stato delle cose: l’Italia non era evidentemente ancora pronta ad accogliere un romanzo così difficile, lirico e metafisico.
Per fortuna, a ottobre 2017 L’Orma Editore ne ha fatta uscire una nuova edizione, che conserva la traduzione di Bonfantini: essa infatti, spiega la “Nota editoriale”, non risulta come di consueto avviene con le traduzioni, troppo attempata ma anzi «in questo frangente, dove la sfida traduttiva si gioca con una prosa dalla lingua così alta, esaustiva, sontuosa, i sintagmi ed i lemmi desueti sono davvero pochissimi».
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Sospeso in una realtà metafisica, l’arcipelago delle Sirti attende e accoglie, senza mai svelarsi, sia il lettore che il giovane protagonista Aldo: un ragazzo di Orsenna, città di antiche glorie e ormai assopita da troppo tempo nelle sue rughe. Orsenna è però anche una città coinvolta in una guerra che si protrae da oltre trecento anni contro il Farghestan, lo stato misterioso e selvaggio che si estende al di là del mare che bagna le Sirti. Una guerra un tempo combattuta, andata pian piano esaurendosi in se stessa: l’orgogliosa città, pur senza poter mai decretare una vittoria definitiva, non aveva mai voluto firmare tregue né stipulare contratti di pace. A Orsenna, dunque, tutto è quieto, ma potrebbe incrinarsi da un momento all’altro. Essendo ancora formalmente in vigore lo stato di guerra, Orsenna conserva le storiche figure dei garanti dell’ordine, fra cui gli Osservatori: spie che vengono mandate in ogni città del regno per essere gli occhi e le orecchie del potere centrale: «La forza delle tradizioni, come sempre avviene nella decadenza, cresceva».
Aldo, giovane annoiato della capitale, deciso a smuovere il ritmo della sua vita, che dorme insieme alla città che l’accoglie, decide di diventare un Osservatore e viene mandato a presidiare l’ultima trincea dello stato, l’Ammiragliato dove un tempo brillava l’enorme flotta di Orsenna: la provincia delle Sirti.
«Scivolavamo lungo le strade, già rese strane dal fatto che esse sembravano additare con la loro direzione un’incognita lontananza. E quell’addio mi era leggero».
«Quelle sabbie sterili sono state infatti sede d’una ricca civiltà, nel tempo in cui gli Arabi invasero il Paese e lo resero fertile coi loro ingegnosi sistemi di irrigazione; ma in seguito la vita si è ritirata da quelle lontane estremità, come se il sangue troppo avaro di un corpo sociale mummificato non arrivasse più fino a loro, e si dice anche che il clima vi si faccia progressivamente più arido, e che le rare oasi di vegetazione vi si restringano di anno in anno, quasi corrose dai venti che vengono dal deserto».
Le Sirti sono un luogo mitico. Rispecchiano in controluce il tessuto narrativo del romanzo e il groviglio tragico dell’esistenza, dove tutto sembra sempre in procinto di accadere e invece mai accade – tutto appare come un inganno, dove si sente fra le dita lo scorrere di una sostanza impossibile da vedere, gli spazi si chiudono fino a soffocarci, e mentre soffochiamo vediamo dispiegarsi intorno a noi tutto ciò che fino a quel momento non eravamo riusciti a vedere. La narrazione di Julien Gracq è tutta tesa in equilibrio sul significante, una prosa preziosa, lirica, ma che sa contenersi, in una profonda affinità con la scrittura proustiana, a cui spesso è stata paragonata. Dispiega per noi le soglie e i confini di un mondo onirico: secco, arido e opaco ma sempre sfregiato dal mare. La meraviglia è sempre “in agguato”.
La scintilla dell’avventura, che arde dentro il protagonista, si consuma per gran parte del libro negli spazi vuoti e sconfinati delle Sirti, e trova la sua maggiore resistenza nella statica figura del capitano dell’Ammiragliato, Marino. Fra i due s’instaura un profondo rapporto d’affetto e di conflitto; tanta è la stima di Aldo nei confronti della sua fiera dignità e del suo passato glorioso, quanta è al contempo la sua voglia di superare e frantumare il pacifico equilibrio di cui Marino si è fatto garante. È un rapporto che racchiude in sé il seme di un conflitto generazionale più profondo. Non soltanto fra i giovani di Orsenna e la città, che della loro vitalità non si preoccupa, ma fra i giovani di ogni mondo e tempo e i sogni che si trovano a inseguire, le aspettative che possono permettersi. Il conflitto si esplica non tanto come scontro con la generazione precedente tout court, quanto piuttosto con i valori e le prospettive che quella generazione ha lasciato (o non si è preoccupata di lasciare).
«Ci si esprime piuttosto per allusioni, direi per omissioni. Ma niente di positivo: tutto resta avviluppato, indiretto; tutto rimanda alle voci, ma niente le denuncia. Come se le parole, tutte le parole di una giornata disegnassero ostinatamente una impronta: l’impronta di qualche cosa; ma un’impronta che resta sempre vuota».
E quando Aldo, fin da subito, comincia a rivendicare il suo diritto di voler esplorare, scoprire, sapere, il suo diritto a sperare che anche la sua sia un’età dell’oro, e inizia a pensare al Farghestan, questa terra misteriosa che si estende oltre il mare, questo stato misterioso che con la sua prolungata assenza tiene immobile, in ostaggio, Orsenna, un suo compagno, Fabrizio, chiamato a esprimersi su come sia possibile sopportare un tale stato d’inattività, risponde:
«Perché io ci penso semplicemente come alla costa là in faccia, a una terra come tutte altre. Tu invece te ne fai quasi un vizio: ci pensi per te, come se ne avessi bisogno. Se non ci fosse, la inventeresti: inventi un lupo mannaro per il gusto di farti paura».
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Non è assente l’amore da questa storia ai confini del reale: un amore che non è conquista, ma appartenenza. È un’esperienza che lo spinge a superare i suoi stessi limiti. Vanessa esiste per Aldo: la sua presenza è centrale tanto nella vicenda del protagonista quanto nel libro, ma senza mai essere invadente. Qui è la maestria di Julien Gracq, nel non dover dire tutto e nel non dover rispondere ai cliché della narrazione. Questo romanzo chiede al lettore un profondo atto di fiducia, di lasciarsi assorbire e andare fino alla fine. Sino all’ultima pagina, sino alla fine dell’avventura, nel mistero selvaggio delle Sirti che forse non verrà mai svelato. L’andare oltre è inevitabile, superare e far crollare i valori che tengono in pugno la città, è un’illuminazione spirituale alla quale non si può sfuggire. Perché quest’opera, che Henri Mondor ha definito «il più straordinario poema in prosa della letteratura francese», racconta l’attesa e il bisogno di una rivelazione, indaga nelle motivazioni che inducono gli uomini di generazione in generazione ad essere interrogativi, e mai sazi, di fronte alla realtà. Assolutamente da leggere.
Per la prima foto, copyright: Thomas Tucker.
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