La Puglia allo specchio – Siamo tutti Ruzzulani
Se c’è una zona di Bari senza identità, questa è Picone. Quartiere che prende il nome da un antico torrente e che ora si trova schiacciata tra Carrassi e il Policlinico. Per noi della chiesa russa, Picone è il quartiere della «Gazzetta del Mezzogiorno», su via Scipione l’Africano, e nient’altro. Ma per me era anche il rione dei gelati. Mio zio Vito aveva una latteria e salumeria su viale Ennio dove andavo a ingozzarmi di panna e gelato al cioccolato dalla sua Carpigiani, un altro aveva una macelleria su viale Salandra e poi ho trascorso la mia infanzia su viale Orazio Flacco, a casa di una zia. Una famiglia di commercianti, la mia, di commercianti e di ferrovieri: i primi fermi a cercare denaro, i secondi in viaggio a portare treni… ciascuno nel suo peregrinare e nella sua fissità a contatto con le persone.
A Picone ci parcheggio la macchina da due decenni, tra le vecchie case popolari di via Giulio Petroni che hanno resistito all’aggressione urbanistica degli anni settanta e ottanta. Qui non c’è stato un criterio, una pianificazione, e l’edilizia si è sbizzarrita mantenendo libere le grandi arterie che conducono all’ospedale. Chi ci abita ha insonorizzato le finestre perché il via vai delle ambulanze a sirene spiegate è un tormento per i residenti e per i degenti.
Nelle palazzine abita il Ruzzulano, il cugino di uno affiliato ai Diomede. Lo conosco dalle medie e ci salutiamo nel quartiere perché frequenta i bar di via Buccari da quando ha lasciato l’alberghiero. Veste trasandato e sciatto come un ruzzulano, appunto, e tiene sempre attaccata a un labbro una cicca spenta a metà, per risparmiare. Perché il Ruzzulano è un tirchio come i suoi amici e i capi dei suoi amici. Ha un’età variabile a seconda delle giornate, come il tempo. E come il tempo segue le stagioni non adeguandosi mai a chi incontra, muta d’umore come gli gira il vento, ma veste sempre uguale e pare non essere mai cresciuto, come in una canzone dei 24Grana, o perfino mai nato, evanescente talvolta come il suo quartiere. Ho voluto incontrarlo perchéa Carrassi ci sono strani movimenti da qualche tempo. Sono spariti dalle strade i georgiani dei furti nelle auto, quindi noi automobilisti ci sentiamo più tutelati, ma sono apparse squadre di rumeni che rovistano nei cassonetti della nettezza urbana alla ricerca di ferro e altri metalli. Sono gli stessi che fondono il metallo nelle lame intorno alla città, bruciando copertoni e ammassi di rifiuti, intossicandosi fino al cancro che non potranno mai curare e che vivono in campi improvvisati nella campagna cittadina. Si sa che nel quartiere non si entra a far rapine o accattonaggio se non c’è il permesso dei Diomede, ma questa penetrazione di stranieri crea un clima d’insicurezza che mi fa leggere la debolezza del clan di Carrassi.
«Ma che sta succedendo, Ruzzulà? Tutti ‘sti rom…»
«Poveracci», risponde.
Poveracci è la parola più giusta, descrive la miseria di un’esistenza condotta a riciclare rifiutiproducendo tossine e miasmi irrespirabili. Donne e bambini in bicicletta affollano portapacchi colmi di fili di rame, scarti di televisori, pezzi di lamiera. Gli uomini li aspettano al tramonto, e a sera appiccano il fuoco come nell’età del bronzo, per poi rivendere il metallo a peso ai rigattieri di Fesca o della Stanic, noti ricettatori di merce rubata. Così non si chiude mai il ciclo dei rifiuti ma si apre una voragine di veleno dentro la città, nei buchi nei polmoni di questi nuovi miserabili.
«Ma glielo fanno fare?»
«E che devono fare? Ci guadagnano tutti, i poveracci e noi»
Effettivamente anche il rifiuto è un affare, come affari sono le persone che incontro lungo il mio cammino per queste strade. Rifiuto come scarto, ma anche come dissenso, negazione di un senso. In tutte le mie passeggiate in compagnia di questa città scopro le ragioni di un contrasto tra chi sta bene e chi vorrebbe star meglio. Questo mi spiega perché la ragione di questo trafficare dei baresi nel circuito angusto della città è tanto folle quanto vitale e mortale insieme.
«Tutti cercano i soldi, uagliò», conferma Ruzzulano.
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Lui apparteneva a quella schiera di piccoli spacciatori di eroina che penetrò nel cortile del nostro centro sociale, le Fucine Meridionali a Picone, allettando con la lusinga della droga vecchi e nuovi tossici. Lui che non cambia, che non invecchia e non matura, è uno zefiro, una ventata di aria stantia dentro una città dalle finestre chiuse, dalle porte sbarrate, più simile a una tomba o a una cella che a un appartamento. Difficile dire quanta coscienza di quel che sono e di quel che fanno hanno quelli come lui. Sono e fanno sopravvivendo a se stessi e ai tempi, alla Storia. Come Bari, che quando muta poi si ritorce su se stessa spaventata dal cambiamento e dalla novità.
«Ma c’è modo e modo di fare i soldi!», obietto innervosito da tanta quiescenza.
«Con la crisi che sta? Col cazzo!»
La crisi, l’alibi indistruttibile costruito lontano dalle nostre vie perché noi si stia sotto, sempre sotto, perché baresi, pugliesi, meridionali… italiani!
«Che stai dicendo, Ruzzulà? Non cambiate mai, voialtri»
«Chi nasce tondo, non muore quadro»
«Ma almeno uno ci prova»
«Perdi il fiato, uagliò. Con me perdi solo il fiato»
Inutile tentare una redenzione, un’uscita dal giro. Mi riusciva più facile alle medie, ora sono troppo grandi per sospingerli lontano dai caffè di via Buccari e dai Diomede.
«Io sono come a loro. Pure loro vanno al mercato a fare la spesa, ma non pagano.
Non pagano mai. Siamo tutti Ruzzulani»
Forse ha ragione lui. Cerchiamo più o meno tutti un vantaggio, uno sconto, di risparmiare per vivere senza vivere.
«Tutti?», domando scettico.
«Tutti, pure gli stranieri. Li devi far campare, a quelli, se no ti rompono i coglioni. Stanno diventando assai, tutti qua vengono gli zingari a scassare il cazzo»
E sì, perché lo straniero è un rompicoglioni, una bocca in più da sfamare, una mano in più da temere, un costo. Allora meglio farselo amico, come coi georgiani, coi cinesi che comprano tutto, coi nigeriani delle mignotte, coi rumeni della droga, con gli zingari accattoni. A ciascuno il suo posto, com’era con Khaled e Mohamed. La storia si ripete, il ciclo si perpetua, oltre il confine del tempo di una città che marcisce incurante di sé.
«Avete superato ogni limite, tu e i tuoi amici», dico, ma lui non mi guarda, si sta allacciando una scarpa.
«Eh?», mi fa alzando la testa e passando all’altra scarpa.
«Avete sempre taglieggiato qui poveretti del mercato di via Montegrappa…»
Si alza, mi fissa, poi sorride.
«Che cazzo stai dicendo? Quelli sono dei parassiti. Se non era per noi dovevano dare tutto agli altri»
Gli altri, quelli di San Pasquale, del mercato di via Nizza, i Caracciolese.
Scuoto la testa, ma alla fine non mi frega più niente di loro. Non ci voglio più scambiare nemmeno una parola.
«Me ne vado, Ruzzulà»
«Uè nu sp’nidde?»
«Ma vaffangul, Ruzzulà!»
Lo mando a quel paese perché non tollero più quest’indolenza sciatta, questa perenne presa per il culo, allora lo lascio lì, a continuare ad allacciarsi le scarpe davanti a un bar dei loro. Vado a prendere l’auto parcheggiata alle popolari e parto per Carbonara dove so che incontrerò una persona molto più interessante di lui.
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