La Puglia allo specchio – Amadou, il nero del ghetto
La Puglia è terra di nuovi ghetti che assomigliano sempre più a slum, quartieri spontanei che sorgono nei sobborghi dei comuni agricoli più tristemente noti alle cronache dello schiavismo. Nardò, Cerignola, Palazzo San Gervasio, Ginosa… terre dove i caporali stanno mietendo vittime, dove i padroni sono tornati a fregarsene dei loro lavoratori.
Incontro Amadou in una strada di campagna, circondato da olivi, a poche centinaia di metri dalla sua casa di lamiera. Vive qui da qualche mese, da quando il suo caporale centrafricano gli ha chiesto di spostarsi da Rosarno al Salento.
– Non potevo dirgli di no, mi ha sequestrato il passaporto.
– Quindi tu sei regolare?!
– Il passaporto è in regola, ma il mio lavoro no.
Sono tanti, almeno diecimila secondo la Flai-Cgil di Puglia, i migranti attirati in Puglia dal sistema dei caporali. Si tratta di romeni, bulgari, centro e nordafricani. Stipati in una dozzina di ghetti, chiusi nella disperata ricerca di una via d’uscita dalla miseria che si traduce in altra miseria, in segregazione, solitudine, lotta per non soccombere sotto la canicola estiva.
– Sto qua perché lui mi ha detto così.
– Di dov’è, lui?
– Senegal, ma i suoi padroni sono italiani, tutti italiani.
Il sistema del caporalato centrafricano pare essersi sviluppato negli ultimi cinque anni. Dalla Sicilia, dove sbarcano, alla Calabria e alla Campania, dove ‘Ndrangheta e Camorra li assoldano, i centrafricani arrivano in Puglia grazie alla connivenza della Sacra Corona Unita e delle mafie del foggiano. Si dispongono dove li immettono: in casolari abbandonati, in tendoni improvvisati o in questi ghetti, dove case di lamiera e baracche raccolgono come immondizia dai dieci ai venti braccianti. Nessuno di essi sa quanto il padrone italiano abbia pagato per il loro lavoro, perché il caporale trattiene il suo da una cifra che è già nettamente al di sotto del minimo salariale giornaliero.
– Lui mi dice di fare dieci ore, gli lascio cinque euro al giorno per il trasporto, tre per il panino e l’acqua, lui mi paga a fine stagione. Se me ne vado non prendo niente e non posso tornare.
– Alla fine quanto prendi a giornata?
– Venti euro se va bene.
– E quando va male?, insisto.
– Anche quindici o dodici, ammette.
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Pochi euro per un lavoro massacrante, con la schiena curva tutto il giorno sui pomodori o sui cocomeri, per tornare a dormire su un materasso pulcioso e puzzolente, per orinare e defecare nelle latrine scavate ai margini del ghetto, per mangiare in fretta, con le mani lavate dall’acqua di pozzo. Quei pozzi dove ogni tanto un bracciante prova a lavarsi e ci casca restando secco.
– Non posso fare altro, dice con una punta di colpevole rassegnazione nella voce.
Mi guarda, Amadou, mentre si guarda intorno. Il primo vento freddo d’autunno scuote le fronde degli alberi. Per terra cerchietti neri ricordano la raccolta delle olive. Siamo due persone diverse, nessuna delle due tanto attaccata a questa terra da volerci rimettere la pelle, e nessuna delle due pronta a vendere la vita in cambio di un niente.
– Perché non denunci?
Alza le spalle. Ha paura. La denuncia può procurargli una sanzione mortale, una ferita di coltello, una bottiglia fracassata in testa, calci e pugni. E a ventitre anni non puoi permetterti di perdere la vita, ne hai troppa davanti. Gli offro una sigaretta che accetta volentieri, gli regalerei il pacchetto se non fosse offensivo. Gli scende una lacrima, tossisce, sputa.
– Non ero venuto per questo in Italia. Ero più libero a casa.
– Libero di fare cosa, Amadou?
– Di sperare.
Questa è una pugnalata vera che mi ferisce il cuore. La Puglia, terra di libertà millantate, porta dentro un serbatoio di dolore riempito dal resto del mondo. Mi vergogno di avere parenti agricoltori, amici agronomi e colleghi che scrivono bucoliche sulla mia regione: i nostri campi sono arati dal sudore degli schiavi, irrorati dal loro sangue, inaciditi dalla loro anima asservita.
– Devo correre, mi fa dopo aver spento la cicca.
Annuisco, lo libero – io negriero della parola – e mi allontano da lui e dal suo ghetto. Se il mio destino è continuare a raccogliere queste storie, desidero che nel suo ci sia almeno una speranza di libertà.
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