La Puglia allo specchio – Al cimitero
Il cimitero di Bari è un viaggio per lapidi, una Spoonriver nella quale si versa la società barese dall’Ottocento in poi. E infatti esso è diviso, come nella città, in quartieri, campi, confraternite e aree specchio della stratificazione sociale ed economica.
Entro nel camposanto, obbligato a passare dall’ingresso monumentale, dove si ergono cappelle che sembrano uscite dall’immaginario di Blake, in un’atmosfera ossianica che mette paura anche di giorno, figuriamoci al tramonto e d’inverno come oggi. Le garguglie e i cancelli di ferro battuto di un secolo e mezzo fa mi spaventano da quand’ero piccolo, ma mi affascina ancora fermarmici davanti e leggere le date di nascita e di morte, guardare le foto stampate su piccoli ovali di ceramica, uomini baffuti, donne con il velo e bambine e bambini con la cuffia. Famiglie intere riunite nei sacelli di marmo sormontati da candelabri di bronzo e di ferro arrugginiti. Lì è sepolta la prima borghesia barese, la sola ad aver ancora diritto a manifestare la propria esistenza passata, perché gli altri, la plebe barese, sono finiti negli ossari, nelle fosse comuni poste sotto le cappelle, senza più un nome, tornati a far parte del volgo. Le urbanizzazioni hanno dissepolto decine di migliaia di baresi ridotti a ossa e le hanno versate nei raccoglitori sotterranei, lasciando intatte le tombe più imperiali. Imperiali perché richiamano il gusto che si andava affinando dalla seconda metà dell’Ottocento e che avrebbe preso piede, definitivamente, sotto il fascismo. Del Ventennio e dell’epopea bellica mussoliniana il cimitero barese conserva memoria con la sua porzione dedicata ai caduti, dove un’architettura imponente e corridoi sotterranei sostengono l’aspirazione all’immortalità dei soldati baresi deceduti in guerra.
Supero quest’area e entro finalmente nella zona dei campi e delle grandi cappelle. I campi sono, lo dice la parola, fazzoletti di terra irti di tombe e lapidi sorte nei decenni senza un criterio. Marmi rosa e bianchi, colonnine, teche, leggii in forma di cuore, pelouche, fiori, ceri, pratini all’inglese e collane, bracciali, caschi da moto, ornano queste canzonature del buon gusto. Si tratta di ex voto per grazia non ricevuta, di cimeli di vite magari meno mostruose di queste tombe. Anche il cimitero, come la città, soffre di uno sviluppo ibrido, brutto, disarmonico e detestabile. Non invita al raccoglimento e al ricordo, ma alla nausea e all’ironia.
E tra tutte le tombe spiccano per bruttezza quelle dei morti di mafia. Sono divise per quartieri e appartenenze familiari, presidiate da pattuglie di vedove e donne incinte, pochi maschi e qualche ragazzino.
Passo davanti a una di queste tombe, un trentenne ucciso qualche anno fa al Libertà, un cognome altisonante nella gerarchia mafiosa barese, un volto come tanti con dentro un destino singolarmente tragico. È stato fotografato durante un matrimonio o un’altra festa familiare, perché indossa un abito da cerimonia con scollino, come usava allora, e sorride senza sforzo, apertamente. Assomiglia a un mio cugino ritratto in una foto di famiglia, potrebbe essere mio cugino se non fosse per il destino di sangue che l’ha sepolto quasotto. La fotografia è in una teca, dentro la teca un bracciale e un orecchino, il suo, e una frase d’amore firmata da una donna, la sua fidanzata o sua moglie. Sotto la teca una lastra di marmo rosa, una frase preconfezionata, troppo smielata per un malvivente, troppo dolce per una vita amara, e poi la terra, la nuda terra che ne divora le carni e le ossa.
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«Un parente tuo?», mi domanda una voce.
Mi volto e vedo una donna bassa vestita di nero.
«No», rispondo.
«Lo so, è mio fratello»
La risposta mi turba, non perché sono di fronte a una donna che porta il cognome che porta, ma perché ho infranto il tabù dell’intimità tra un morto e un suo caro.
«Mi perdoni. Non volevo…»
«Bella tomba, vero?»
Mi sorprende questa seconda domanda, perché piena di malizia e vanità.
«Sì, effettivamente», rispondo imbarazzato, mentendo.
«Nu sacche de terrìse, ma jidde se le meretavetott»
«Sarà contento, allora»
«Sime tutte chentende»
Tutti. La famiglia, gli affiliati, gli scagnozzi, i servi e i padroni.
«Era un bel ragazzo», dico tanto per dire, perché lei tace guardando fisso la foto del fratello.
«Sì»
«Mi scusi di nuovo se mi sono fermato, ma ogni tanto vengo al cimitero a perdere un po’ di tempo. Mi fa bene»
«Pure io lo faccio. Fa bene parlare con i morti, non c’arrecherdame che sime vive. La vite jè ‘na brutta bestia»
Vorrei risponderle che sono bestiali soltanto le vite che ricorrono alla morte per delimitarsi, che la mia vita è felice e che vengo qui per trovare mio padre, che era un uomo contento perché onesto.
«La vita è così», dico mestamente.
La donna mi guarda come per sfidarmi, poi scuote lentamente il capo da destra a sinistra.
«Non per tutti»
Annuisco. Ha ragione lei come ho ragione io. Non tutte le vite sono uguali, ma siamo tutti fatti della stessa pasta e prima o poi ci corrompiamo nel dolore e nella morte. Chi più velocemente, come suo fratello, chi per malattia, come mio padre.
«La saluto, signora. Arrivederci», faccio.
«Ciao. Vieni quando vuoi, a lui fa piacere», risponde.
«Non mancherò», rispondo sorridendole, mentre lei fissa sempre la foto di suo fratello, poi si scuote, mi guarda e mi domanda a chi vengo a fare visita.
«Mio padre»
«Morto giovane?»
«Sessantaquattro anni»
«E com’è morto?»
«Di cancro»
«Brutta malattia», commenta commossa.
Adesso sarei disposto a farmi abbracciare da questa donna di mafia, a farmi stringere tra le sue braccia e perfino tra i suoi seni prosperosi. Potrei farci l’amore perché come nella morte, anche nel dolore e nell’amore siamo della medesima e corruttibile materia: cediamo alle lusinghe rispondendo a un richiamo arcano e immotivato. Mi volto perché sto scoppiando in lacrime e le immagini delle ultime ore di mio padre mi scorrono nella mente più vivide che mai. Accelero per arrivare alla sua cappella e, quando sono davanti al suo piccolo loculo di marmo grigio, piango senza sosta battendo i pugni contro la fredda lapide.
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