La Prima guerra mondiale raccontata da Luigi Pirandello
S’intitola Novelle della grande guerra la raccolta di novelle del Premio Nobel per la Letteratura Luigi Pirandello, pubblicate da Nova Delphi.
Il libro raccoglie otto racconti di Pirandello aventi come tema principale quello della guerra e, in particolare, della Prima guerra mondiale: Berecche e la guerra, Frammento di cronaca di Marco Leccio e della sua guerra sulla carta nel tempo della grande guerra europea, Colloquii coi personaggi, Quando si comprende, Jeri e oggi, La camera in attesa, Un “goj” e Il Signore della nave.
Qui di seguito proponiamo in anteprima una parte dell’introduzione del volume firmata da Pietro Milone.
Grildrig e i giganti della guerra
I. La piccola e la grande storia
Le novelle qui raccolte furono pubblicate nel corso della Prima guerra mondiale, a eccezione di Jeri e oggi che uscì su “Il Messaggero della domenica” nel giugno 1919, ma risaliva all’agosto 1915, quando Pirandello la inviò al “Corriere della Sera” dove Renato Simoni, direttore del supplemento “La Lettura”, ne impedì la pubblicazione. Tutte le prime redazioni delle novelle (quelle qui pubblicate sono, per lo più, quelle successive e delle Novelle per un anno) uscirono sulla stampa quotidiana o in rivista. Un’altra vita (parte iniziale di Berecche e la guerra) sulla “Rassegna Contemporanea” del 25 settembre 1914; La guerra su la carta (poi Frammento di cronaca di Marco Leccio) su “Il Messaggero” di Roma, in cinque puntate, tra il 2 agosto e il 22 settembre 1915, firmate con lo pseudonimo di Grildrig; i due Colloquii coi personaggi sul “Giornale di Sicilia”, in quegli stessi mesi (coi titoli accomunati da un Durante la guerra); Quando si comprende, il 30 gennaio 1916, su “Il Mondo” di Milano dove uscì anche, alla vigilia del Natale seguente, Il presepe di quest’anno (divenuto poi Un “goj”).
Quest’ultima novella rappresenta l’espressione più critica e irridente del giudizio di Pirandello sulla guerra, la più naturaliter cristiana (per dirla con Leonardo Sciascia) dietro una corposa parvenza di blasfemia: il protagonista, ebreo (e quindi deicida) convertito, polemicamente sovrappone alla rappresentazione della natività quella dell’olocausto bellico, con un presepe che assume un diverso e opposto significato e mette in scena una sorta di deicidio in culla, che esprime e rovescia l’accusa rivolta al suo popolo. Un sarcastico presepe di guerra come epifania del male, quasi un annuncio della morte di dio, come poi, ancora, in tanta letteratura del dopo Auschwitz. Analogo discorso potrebbe farsi, a maggior ragione, per Il Signore della nave (uscito su “Noi e il Mondo” nel gennaio 1916), un’altra festa religiosa legata al sacrificio, al primitivo rito di un’orribile scannatura e al suo mercato. Una novella che non parla della guerra ma che ne è una potente espressione allegorica, l’unica possibile in quegli anni su una stampa che già alla vigilia della dichiarazione italiana di guerra (ben prima di Caporetto e dei servizi di propaganda che arruolarono giornalisti e intellettuali dal già citato Simoni a Ojetti e Borgese) era controllata e sottoposta a una censura di cui si lamentava persino l’interventista Luigi Albertini, direttore del “Corriere della Sera”.
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La collaborazione di Pirandello al “Corriere” aveva fruttato, dal 1909 ad allora, una trentina di novelle, ma procedendo tra rifiuti, tagli, discussioni estenuanti e vere e proprie censure dei responsabili del giornale che tutelavano il perbenismo borghese della morale, dell’ideologia e del gusto, per evitare “le ire dei timorati lettori”, come Pirandello diceva scrivendo al giornale dopo le proteste suscitate da Pensaci, Giacomino!, quando ironicamente prometteva di mandare la sua “fantasia a far gli esercizi spirituali” per “una novellina proprio Figlia di Maria, col nastrino celeste al collo e la medaglina sul petto”.
Altre medaglie sul petto dei suoi personaggi, come il garibaldino Marco Leccio, avrebbe esibito poi Pirandello. Non però in Jeri e oggi che Simoni non rifiutò ma non pubblicò, suscitando le proteste del Nostro che dapprima contestò la motivazione addottagli che “la verità con cui era descritta la costernazione di alcuni giovani ufficiali in partenza per il fronte potesse accrescere l’ansia angosciosa dei parenti che hanno figliuoli al campo”. Jeri e oggi narrava di un giovane sottotenente romano, Marino Lerna, salutato, tra pianti e svenimenti, dai genitori accorsi, angosciati, a Macerata e alla stazione di Fabriano (luoghi del reale distacco di Pirandello da Stefano, il figlio primogenito partito volontario). Pirandello controbatteva accennando alla natura autobiografica della novella (legata, in una sorta di dittico, a Quando si comprende dove tornano i medesimi genitori in viaggio per raggiungere il figlio) e, per non compromettere i rapporti col giornale, la diceva “innocentissima” anche se, nel clima morale, ideologico e politico del tempo, era tutt’altro che tale. Coprotagonista della novella è un altro militare, il Sarri, che festeggia la partenza gozzovigliando con i commilitoni e con la “donnina allegra” che ha con sé. Il personaggio è solitario e sprezzante, come il suo autore, per il “proposito, ch’era in lui quasi bisogno istintivo, di non confonder mai il suo sentimento con quello degli altri” dimostrando ch’egli sentiva “l’opposto, senza punto curarsi dell’altrui stima”. E come lui anticonformista, partecipe di un’antiretorica patriottica (più che di una retorica antipatriottica) per la quale “l’idea di seguitare a vivere, dopo la guerra, nell’enfasi di una patria piena di eroi, gli era intollerabile”.
La crudele e spietata verità dell’arte di Pirandello, molto più pietosa dell’ipocrita retorica diffusa dalla mistificatrice cronaca della “mostruosa macchina del giornalismo” (che gonfiava idoli come D’Annunzio), non era adatta al “Corriere” o alla “Lettura” su cui, invece, uscì, nel maggio 1916, La camera in attesa, con il suo più convenzionale patetismo degli affetti familiari.
Dalle circostanze della pubblicazione delle novelle, siamo così arrivati, col rifiuto pirandelliano della retorica, al cuore di una loro prima interpretazione. Quel rifiuto si manifesta esplicitamente, seppur dissimulato in qualche passo secondario dei discorsi dei personaggi che si fanno maggiormente portavoce dell’autore. Come il viaggiatore grasso di Quando si comprende, rassegnato, sì, ad accettare la morte del figlio; ma non certo (come un altro fraintende) nel nome della retorica patriottica sui figli della patria di una canzone popolare che egli cita ironicamente e irride. Ancora più importante il passo di Un “goj” che spiega il singolare atteggiamento del protagonista: la sua urtante irrisione – legata al suo irriducibile punto di vista critico di straniero – incomprensibilmente seguita da una totale remissione: “approvare, approvar sempre, approvar tutto. Anche la guerra, sissignori”. Il riferimento alla guerra, però, compare solo a partire dall’edizione del 1922. In tempo di guerra, il passo prendeva a bersaglio la propaganda: “L’asino vola? Il sole fa buio? / Già! già! Sicuro! sicuro!”.
La propaganda, la cronaca ufficiale dei giornali (con le ricostruzioni dei bollettini di guerra dei comandi militari) e più in generale la cronaca in sé, dei fatti, e i libri di storia sono alcuni degli obiettivi polemici delle novelle. La polemica è talora feroce e urtante, talora amaramente dolente, stemperata nell’umoristico monologo riflessivo, filosofico, di un personaggio come Berecche, professore di storia in pensione che cerca una difesa all’irruzione del trauma della guerra nella distanza della categorizzazione spazio-temporale della ragione (quella che altrove Pirandello dice la “filosofia del lontano”). Difesa ben più precaria di quella raggiunta invece dal personaggio che (nel primo dei Colloquii) ignora il cataclisma che si sta scatenando sull’Europa, al contrario dell’angosciato scrittore che rientra in casa con un pacco di giornali sotto il braccio.
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Cronaca, storia e arte. Una questione di potere, di censura, di verità imposturata o meno. Ma anche una questione di scritture diversamente incentrate su una dimensione sovraindividuale o individuale: La piccola e la grande storia, a dirla con un titolo interno di Berecche (quello del secondo capitolo delle prime edizioni) che condensava una serie di opposizioni di significato che permeano il testo ed esprimeva due punti di vista antitetici nell’erma bifronte dell’umorismo pirandelliano.
Il relativismo di piccolo e grande è infatti costitutivo di un personaggio emblematico dell’umorismo: il Gulliver di Jonathan Swift, “gigante a Lilliput e balocco tra le mani dei giganti di Brobdingnag”, dove era chiamato Grildrig. Pirandello ne scriveva a conclusione del penultimo capitolo de L’umorismo, illustrando il meccanismo della scomposizione a opera della riflessione, il motivo (già leopardiano) del copernicanesimo, la pascaliana compresenza di infinita piccolezza e grandezza dell’uomo (della sua ragione e del suo sentimento), il duplice effetto della visione ingrandita dal telescopio e di quella, viceversa, rimpicciolita dal telescopio rivoltato. Elementi tutti presenti e determinanti in quello specimen umoristico che è Berecche e la guerra.
Alla fine di quel secondo capitolo (poi suddiviso nel terzo, quarto e quinto: La guerra sulla carta; La guerra in famiglia; La guerra nel mondo), Berecche contempla le stelle, come tanti altri personaggi pirandelliani, e immagina la terra vista da quella distanza siderale:
Se nei cieli si sapesse che in quello striscio di tenue barlume son milioni e milioni d’esseri irrequieti, che da quel granellino lì credono sul serio di poter dettar legge a tutto quanto l’universo, imporgli la loro ragione, il loro sentimento, il loro Dio, il piccolo Dio nato nelle animucce loro […al quale] chiedono conto delle loro piccole miserie e protezione anche nei loro affari più tristi, nelle loro stolide guerre.
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Se nei cieli si sapesse di quell’infinita e infinitesimale presunzione dei vermucci umani di cui Pirandello, dopo i traumi e le delusioni dell’Italia postrisorgimentale, divenuto postumo a se stesso come il suo Fu Mattia Pascal, si era già stufato di narrare le storie… L’arte di Pirandello procedeva infatti nella direzione di una progressiva universalizzazione di significato, estraendo dalle contingenze dei fatti (che sempre tali restano, per quanto grandi) un senso universale ed eterno, filosofico più che storico, stando alla distinzione della Prefazione ai Sei personaggi tra gli “scrittori di natura più propriamente filosofica” e quelli “di natura più propriamente storica”. Berecche e la guerra uscì integralmente nel 1915 in Erba del nostro orto, una raccolta, potremmo dire, di polemica politica, più o meno esplicita, di stampo radicale (antigovernativa e antiparlamentare, antimonarchica, anticlericale). E di nuovo, nel 1919, nella raccolta eponima (con il primo dei Colloquii coi personaggi e il Frammento di cronaca), per noi particolarmente significativa perché incentrata, dallo stesso Pirandello, sulla Prima guerra mondiale. Solo dal 1922, poi, lo scrittore avrebbe messo mano alla raccolta, che sarebbe dovuta essere quella completa e definitiva, delle Novelle per un anno.
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Berecche e il Frammento sono in profonda corrispondenza tra loro e legate dal riuso di una parte comune che il lettore di questa più ampia raccolta di novelle di guerra ritroverà in entrambe: le pagine dedicate all’umoristico personaggio dell’orologiaio Livo Truppel. Il nome, che Marco Leccio vorrebbe italianizzato in Livo (Olivo) Truppa, fonde pace e guerra nel segno della neutralità del personaggio, che è svizzero e non tedesco come ritiene l’invasata folla di manifestanti interventisti che devasta la sua bottega in via Condotti. La cronaca dei giorni precedenti la dichiarazione di guerra fu piena di episodi analoghi nel centro di Roma, dove ancora si trova il celebre negozio di Hausmann & Co. Nel 1919 Pirandello trasforma le cinque puntate de La guerra su la carta del “Messaggero” nei dieci capitoli, cui ne aggiunge un undicesimo, del Frammento di cronaca. Il testo non entra poi (al pari dei Colloquii) nei primi tredici volumi delle Novelle per un anno, di modo che quando Pirandello ne predispone il volume XIV e vi inserisce Berecche, può aggiungervi un nuovo capitolo ottenuto riutilizzando le vecchie pagine su Truppel. Il pacifico orologiaio, così, si ritrova per suocero non più il garibaldino Marco Leccio ma il germanofilo e triplicista Berecche. La novella, ancora una volta, dà il titolo alla raccolta. Ma siamo ormai nel ben diverso contesto dell’anno 1934 e di un riavvicinamento tra Italia e Germania più pericoloso del precedente distacco.
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