La povertà, una colpa sociale da espiare. “Elmet” di Fiona Mozley
Le regole della società non sono mai state uguali per tutti. Non lo sono ora, molto probabilmente non lo saranno mai. Ciò è ancor più veritiero quando si tratta dei più fragili, dei più deboli e di tutti coloro che scelgono di non adattarsi ai modelli imposti dai pochi e condivisi dai molti. Accade soprattutto quando questi individui non si rassegnano alla condizione di emarginati e la loro ribellione diventa un atto sociale inaccettabile. Perché la povertà non si perdona, è una colpa da espiare che rende tutto lecito, anche i pretesti più insensati, quale può essere l’accusa infondata di un omicidio. E trasforma gli indigenti in bersagli facili di comportamenti crudeli che vengono, tuttavia, spacciati per gesti finalizzati a ristabilire l’ordine precostituito, quello che non solo etichetta la violenza perpetrata dai ricchi come necessaria e giusta, ma pretende e ottiene il consenso perfino da parte degli ultimi stessi.
Ne sanno qualcosa i protagonisti di Elmet, il romanzo di Fiona Mozley (Fazi Editore, traduzione di Silvia Castoldi) che narra le vicende di Daniel e Cathy, fratello e sorella adolescenti che, dopo la scomparsa misteriosa della madre, vivono isolati dal resto della loro comunità per volere del loro stesso padre John. Quest’ultimo è un uomo temuto per il suo aspetto vigoroso e la sua fama da bruto, ma che nasconde in realtà un animo affamato di giustizia e desideroso di lottare, anche a rischio della propria vita, per ciò in cui crede e per assicurare un futuro ai suoi figli.
«In quel periodo tutto quello che faceva aveva lo scopo di temprarci contro qualcosa di invisibile. Voleva rafforzarci contro i lati oscuri del mondo.
Più ne sapevamo, meglio saremmo stati preparati. Eppure non c’era niente del mondo nelle nostre vite, solo storie che lo riguardavano. Eravamo stati allontanati dalla scuola e dalla città in cui eravamo nati per andare a vivere con Papà in un boschetto...»
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John si rivela un padre consapevole delle storture del mondo e desideroso di proteggere Cathy e Daniel, costruendo loro una realtà lontana dalla cattiveria umana e a contatto con la bellezza pura della natura.
Nella terra di Elmet, sospesa tra il passato e il futuro, tra i boschi e le colline verdeggianti dello Yorkshire, infatti, vige la regola del più forte, dei padroni che sfruttano i lavoratori, dei proprietari terrieri che si impossessano anche dei diritti e dei corpi dei contadini, dei locatori interessati solo al proprio profitto, a discapito del benessere dei propri affittuari, bambini compresi.
Elmet non ha un tempo definito, potrebbe appartenere ai secoli precedenti, oppure al presente perché ciò che conta è il ripetersi delle dinamiche della sopraffazione e del dominio del potente sul più debole, dell’uomo sulla donna, del padrone sul suo dipendente. Tutto sembra inevitabilmente destinato a replicarsi, in un circolo vizioso in cui gli emarginati della società sono prigionieri della paura e rassegnati alla loro condizione, come qualcosa di ineluttabile.
In questo mondo senza tempo John appare, al contrario, come uno dei pochi individui insofferenti agli abusi e alle prepotenze dei ricchi padroni, al punto da rinunciare al proprio lavoro pur di liberarsi dalle catene del potere esercitato dal suo ex datore, il signor Price. E lo fa anche se ciò significa vivere secondo delle regole ritenute amorali ed esporsi a insulti e ritorsioni, ai danni suoi e dei suoi figli.
«Una volta lavoravo per quell’uomo. Lui usava la mia forza per fare il prepotente con i poveri e i deboli, per fargli pagare i debiti. Io gli servivo, e lui vuole che torno a servirlo. Ma non lo farò. Non lavorerò mai più sotto qualcun altro. Il mio corpo è solo mio. È tutto quello che ho di mio».
Esiste un modello universale per proteggere i propri figli dalla violenza e dall’ingiustizia del mondo esterno? Prima della lettura del romanzo della Mozley la risposta appare nella sua semplice banalità: la strada da seguire è sempre quella del rispetto della legge, della ricerca del dialogo e del compromesso. Ma la scrittrice britannica, con la nuda descrizione degli accadimenti affidata all’io narrante di Daniel, spinge il lettore a una riflessione che mette in discussione le convinzioni e certezze insite in ognuno di noi.
Perché nel racconto di questo adolescente il disagio arriva dal mondo esterno, da quella comunità chebullizza – con lo sguardo, con le parole e con i soprusi – sua sorella Cathy, da quelle persone che voltano le spalle a tutta la sua famiglia allorché il dubbio della loro colpevolezza viene insinuato nella gente dal prepotente e avido proprietario di turno.
La bellezza invece dimora tra le mura di una casetta nel bosco, costruita con le mani amorevoli di un genitore ritrovatosi improvvisamente solo, e tra i gesti e i dialoghi che intercorrono tra i due adolescenti. Una famiglia che diviene bersaglio della comunità perché la diversità, agli occhi degli altri, è sintomo di infelicità e mancanza di amore. Invece è in quella scelta coraggiosa di vivere fuori dagli schemi sociali che germoglia un affetto sincero, quello che lega i tre componenti di questo nucleo familiare così unito da spingere ognuno di loroa compiere scelteestreme per proteggersi reciprocamente.
Una linea netta separa infatti Cathy, Daniel e John dagli altri abitanti di Elmet, ma l’autrice lascia ampia libertà ai lettori di scegliere da che parte stare, di individuare dove risieda il male puro e quello comprensibile, seppur mai giustificabile, in quanto espressione di una reazione all’abbrutimento dell’animo umano.
«Quei due ragazzi erano davvero belli. Molto più belli di me e Papà, non c’era proprio paragone. Eravamo quasi due razze diverse, adattate ad ambienti diversi, cresciute sui due lati opposti di un dirupo. Era come se io e Papà fossimo spuntati da una zolla di fango e radici scheggiate e loro fossero emersi in sequenza cristallina da una vena di minerali puri.»
La diversità diventa quindi pretesto di una violenza che tenta di distruggere gli equilibri e la serenità di un’intera famiglia, ma che finisce invece per svelarne la forza affettiva e per rivelare che, spesso, la crudeltà si cela dietro le apparenze perfette, la ricchezza, le vite vissute secondo le regole considerate eticamente corrette e giuste dalla maggioranza delle persone.
Con una scrittura dal ritmo incalzante e dal linguaggio scorrevole, l’autrice tiene il lettore con il fiato sospeso sin dal suo incipit, accompagnandolo in un viaggio il cui leitmotiv diventa chiaro solo nelle ultime pagine. Intrecciando la descrizione di scene presenti con i flashback dell’io narrante, la Mozley dimostra una capacità narrativa fuori dal comune nel mantenere perennemente alta l’attenzione e nel solleticare la curiosità di conoscere l’esito delle vicende. E non solo: il suo grande merito è di non scadere mai nel macabro, anche nel racconto delle azioni più cruente, ma di lasciare trapelare la malvagità di chi le compie attraverso le porte chiuse, le fughe, gli odori, le sensazioni dei protagonisti.
E lo fa senza ricorrere a parole ricercate o ad artifici linguistici, ma portando gli occhi di chi legge su singoli particolari, che si tratti di un movimento, di uno sguardo, del silenzio di uno dei personaggi: sono i piccoli dettagli che fanno sì che le vicende narrate prendano vita nella testa del lettore, rendendolo pienamente partecipe degli eventi.
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L’intero romanzo è attraversato quindi da un continuo confronto tra bene e male, tra coraggio e rassegnazione, giustizia e ingiustizia, senza che l’autrice sveli mai il “vincitore”, ma limitandosi a lasciare aperta una ricerca, quale simbolo dell’assenza di resa e della resistenza di un reale affetto, che sopravvive a qualsiasi condizionamento sociale, a qualsiasi violenza e a qualsiasi desiderio di vendetta.
Perché la povertà non è una colpa da espiare, ma una fragilità che, a volte, si può curare semplicemente con la solidarietà:
«Porto al bancone il piatto, la ciotola, la teiera, la tazzina, il piattino e le posate. Ringrazio tutti, ancora e ancora, e loro sorridono.
La bontà degli sconosciuti. La bontà delle donne. Donne che dividono le proprie torte con i vicini e fanno volontariato presso l’associazione genitori insegnanti. Donne che ascoltano. Donne che parlano.»
Per la prima foto, copyright: Olivier Guillard.
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