La politica italiana tra maghi, guerrieri e draghi
Da Demostene a Cicerone fino a giungere ai nostri giorni, la comunicazione ha ricoperto e continua a ricoprire un ruolo strategico a tutti i livelli.
Con l’ascesa del marketing politico e dei new media siamo poi entrati nell’epoca della campagna elettorale permanente, in cui ogni leader – o aspirante tale – vuole ritrovarsi in primo piano ma, allo stesso tempo, è soggetto ad alcune logiche che guidano le azioni degli attori sulla scena.
Ed ecco che, seguendo lo schema tracciato da Fabrizio Luisi in Maghi, guerrieri e guaritori: Gli archetipi della politica italiana (Mondadori), scopriamo che Matteo Renzi interpreta il Mago, Matteo Salvini assume le caratteristiche del Guerriero, Nicola Zingaretti prova a essere un Guaritore.
Non esiste politica senza comunicazione, e viceversa. Ma com’è cambiato il rapporto tra questi due elementi negli ultimi anni?
Da una parte, citando Christian Salmon, la politica sempre più impotente si è avvicinata alla pura performance e il politico è diventato oggetto di consumo culturale. Dall’altra la capillarità, la penetrazione e la velocità dalla Rete permettono ai racconti (dal meme al mito) di avere un impatto rapido e travolgente sugli scenari politici.
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Da un punto di vista prettamente comunicativo, il panorama politico recente del nostro Paese ha saputo offrirci pochissimi personaggi politici che funzionassero. Quali sono le cause di queste difficoltà? E come potrebbero essere superate?
Abbiamo avuto esempi di comunicazione molto efficace, per esempio la Lega di Matteo Salvini, Matteo Renzi, o il Movimento 5 Stelle prima che arrivasse al governo. Il fronte progressista è quello che ha sofferto di più. Tra le tante cause ne cito due. La prima è che i partiti progressisti sono stati troppo tempo partiti di governo e si sono illusi che la politica coincida con la buona amministrazione. Non è così: la politica è anche battaglia per il consenso. La seconda è che da sessant’anni respiriamo l’aria di un frame conservatore di matrice neoliberista, che è ormai dominante al punto che non ci accorgiamo della sua esistenza, ma è il frutto di un investimento enorme e decennale della destra in storytelling politico. Il libro è un tentativo di abbozzare delle soluzioni ma è solo un inizio di conversazione.
Il nostro Paese sta vivendo uno dei momenti più delicati dal dopoguerra a oggi. Quanto risulta importante, dunque, una comunicazione politica e istituzionale coesa e unanime? E quali sono le conseguenze per l’opinione pubblica di una comunicazione che continua a essere faziosa?
La comunicazione pubblica è praticamente assente. Dovrebbe invece utilizzare tutte le tecniche di racconto più efficaci per accompagnare l’attività di governo, la cui comunicazione è invece demandata ai singoli personaggi politici. Sono però convinto che non esiste una comunicazione neutra, non-faziosa. Il punto è che coloro che hanno investito in comunicazione appartengono sempre alle stesse fazioni, mentre le altre fazioni sono senza voce, a seconda dei casi, per ottusità, ignoranza, inesperienza o mancanza di soldi.
Uno dei movimenti attorno ai quali si è creato più dibattito, negli ultimi mesi, sono state le Sardine. In un contesto politico oramai in permanent campaign, le Sardine hanno davvero rappresentato un fattore nuovo? Qual è stato il loro contributo nel rinnovamento comunicativo italiano?
Non penso abbiano rappresentato una novità, quanto piuttosto una dimostrazione che la fame di racconto in ambito progressista è talmente grande che è stata sufficiente l’attivazione di una semplice metafora ben congegnata inscritta in un frame di valori molto vago per mobilitare una grande quantità di persone.
Lei afferma che una delle ragioni dell’ascesa delle destre al potere sono stati i loro investimenti nello storytelling. Bonaccini, tuttavia, è riuscito a vincere nelle recenti elezioni in Emilia-Romagna puntando molto sui risultati ottenuti nella legislatura precedente. Quali spunti di riflessione possiamo trarre da tutto ciò?
Parlare di risultati è solo un tipo di racconto fra i tanti tipi di racconto, e non va bene per tutti i candidati. Bonaccini è riuscito negli anni a costruire questa narrazione di sé, da Sovrano, per usare uno degli archetipi che cito nel libro. Ma investire in comunicazione, in particolare in quella che è stata definita come “politica cognitiva”, significa uscire dalla logica del singolo personaggio, e lavorare invece per cambiare l’orizzonte comunicativo nel suo complesso, il che permette a personaggi e storie differenti di emergere.
L’Italia è oggi formata da diversi partiti medio-piccoli. Molti dei quali non riescono a incrementare le proprie percentuali. È colpa di un elettorato estremamente variegato? Della mancanza di leader carismatici, personaggi che non sono in grado di far vivere gli alti e i bassi di una storia alle persone? O che non riescono a concepire se stessi come un prodotto culturale di consumo?
È possibile che personaggi con una storia forte facciano comunque fatica ad affermarsi perché inseriti in un racconto più grande che non li favorisce. Ma in Italia molti candidati e soggetti politici non solo non hanno un racconto forte, ma non hanno proprio un racconto, non si sono dimostrati in grado di produrne uno e, ancora peggio, hanno avuto l’arroganza di pensare che non fosse necessario.
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2020, una società iper-comunicativa. Come è possibile distinguersi e soprattutto lasciare una traccia memorabile? In altre parole: come farsi notare?
Analizzare le proprie qualità e sintetizzarle in un personaggio, capire a quali bisogni del pubblico intendo rispondere e con quali soluzioni, scegliere il mio posizionamento nell’ecosistema narrativo, e a partire da queste e da altre valutazioni definire qual è la mia matrice di comunicazione, i miei archetipi fondamentali. E poi rimanere coerente a questa matrice e produrre continuamente racconti a partire da essa. Nel libro cerco di spiegare in dettaglio proprio questo metodo di lavoro.
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