La poesia è passione, testimonianza e fedeltà alla lingua
Gabriella Sica, poetessa e da sempre grande promotrice della cultura poetica in Italia – come dimenticare l’esperienza della “sua” rivista «Prato pagano» –, torna in libreria con una nuova raccolta poetica, Poesie d’aria, pubblica da un editore che porta già nel nome la sua vocazione: InternoPoesia.
È l’occasione per parlare con Sica della poesia, di cosa è diventata negli ultimi anni e di come questa trasformazione abbia inciso anche sulla società.
Comincerei con una domanda abbastanza diretta: perché poesie d'aria? Cosa l'affascina di questo elemento?
Mi accorgo solo ora che nei miei libri in versi c’è un’emersione dei quattro elementi fondamentali della natura, secondo gli antichi greci: la terra nelle Poesie familiari, l’acqua e il fuoco in Le lacrime delle cose e l’aria in quest’ultimo. E l’aria, sempre secondo i greci, era associata al corpo, alla circolazione del sangue nel corpo. L’aria è qualche cosa di invisibile che alimenta la vita. Mi sono trovata a dover desiderare l’aria in varie circostanze, per ragioni fisiche e psicologiche. Un desiderio che con la pandemia si è esteso ai molti malati del mondo bisognosi d’aria per vivere. L’aria fa respirare e il respiro coinvolge, nel suo movimento di inspirazione e di espirazione, il corpo, il pensiero, le immagini mentali e pure le affezioni materiali. Queste sono di fatto gli affetti e i sentimenti dell’animo sempre riconducibili alla materia, secondo quanto già scriveva Leopardi. E cosa sono gli eventi del passato se non eventi pieni d’aria, risonanze materiali di impronte antiche e tuttavia impregnate di veggenza, che chiedono di manifestarsi, di farsi soffio e vento (dal greco anemos), e di farsi dunque anima. Non una contrapposizione tra aria e materia perché l’una affluisce nell’altra e si fanno vicendevolmente spazio. Potrei citare qualche autore utile a questa genealogia dell’aria: Petrarca scrive di aura per parlare della poesia, ripreso, nell’epoca della “riproducibilità tecnica” da Walter Benjamin. Ora, esaurita e dissolta ogni aura, ci resta questa aria più ampia e democratica, ma anche una “svolta del respiro” piena di angoscia e di crisi, come il grido emesso da Paul Celan (figlio della Shoah e lui stesso ucraino, proveniente da un paese infossato in terre oggi di nuovo devastate). Questa “svolta del respiro” del nostro tempo è una virata globale già annunciata dalla crisi climatica, ambientale e sanitaria, e che si ripropone drammaticamente nella ferocia disumana verso gli innocenti in terra d’Ucraina.
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In esergo ha inserito citazioni tratte da Morante, Dickinson, Petrarca, Sachs, Cavalcanti, Stevens oltre a un proverbio contadino. In che misura si può considerare una dichiarazione d'intenti?
Non amo molto le citazioni in esergo, di solito non le uso, o magari mi limito a una. In questo libro, con un titolo apparentemente non concreto, ho sentito il bisogno di inserire una serie di piccoli cartelli, quasi una segnaletica stradale sui luoghi in cui ci si sta avventurando, e che potremmo chiamare Piazza d’aria. Ci sono poeti della tradizione italiana che ho sempre seguito come Petrarca e Cavalcanti, poeti come Dickinson, che è lei stessa personaggio di un paio di poesie, e su cui in quel periodo stavo scrivendo Emily e le Altre, c’è Nelly Sachs che ho sempre letto, anche prima di Paul Celan che avevo pure inserito in questa serie, con due versi, “Come corone, corone d’aria / attorno ---”, e poi ho tolto perché nel libro sono già sparsi riferimenti ai suoi versi, e compare pure in una poesia. Ci sono autori che amo da sempre come Morante, e come Stevens, che leggevo molto in quel tempo. E c’è anche un proverbio contadino, Gli stracci sono aria, spia del mio amore, che risale all’infanzia, per quel mondo che mi ha sempre poi portato ad ammirare le persone semplici come fossero tutte importanti o poeti. Avevo inserito anche un “cartello segnaletico” di Leopardi, Bertolucci e Penna, ma erano troppi.
Nella raccolta c'è un testo dal titolo molto emblematico: «La poesia ha passione». Cos'è per lei la poesia?
Non sono io a essere appassionata ma è la poesia che ha passione, che esplora e scruta con attenzione la realtà, i luoghi, le città, le strade, le persone, le piante, i boschi, i laghi, gli animali, il cielo, le stelle e il mare. La poesia, il cui titolo vuole essere partecipe ma anche lievemente ironico, sta contemplando sei poeti che passeggiano insieme a Milano, tema di una famosa poesia (sarcastica più che ironica) di Vittorio Sereni.
Aggiungo che di per sé la poesia è, oltre che passione, testimonianza e fedeltà alla lingua. Qualche settimana fa ho provato a stilare un elenco di definizioni della poesia elaborate nel corso degli anni. La pagina si è riempita. Ci sono stati numerosi cambiamenti e slittamenti. Agli inizi amavo la poesia chiara, semplice e candida. Oggi sento che “la poesia ha passione” e, per riallacciarmi comunque ai miei inizi, posso anche dire che la poesia è pur sempre un’espressione candida e creaturale, e alle creature si rivolge, anche se fossero refrattarie e lontane dalla poesia per vari motivi. Anche per loro si scrivono poesie, per coloro che non sanno.
Dal 1979 al 1987 ha curato la rivista «Prato pagano», che ha ospitato i contributi d'esordio di molti poeti contemporanei. Com'è cambiato il modo di intendere la poesia oggi rispetto a trent'anni fa?
Negli anni Ottanta c’è stato un tempo vivace e ricco della poesia, e, per quelle sublimi coincidenze che a volte accadono nella storia, un’epoca, che si voleva strappare dal noto e aprirsi all’ignoto si trovò in bella sintonia con la creatività artistica. Ero entrata nella mia nuova e prima casa a Trastevere il 15 gennaio 1978 e, dopo molti tagli nella mia vita di prima, volevo cominciare a pubblicare miei e altri testi. Ho trovato la disponibilità di un editore e ho cominciato prima con i libri e poi con “Prato pagano”. Conoscevo già parte del mondo letterario, ma questo era per me il passato, mi sentivo davvero persa e non avrei mai pensato di ritrovarmi al centro di una nuova ondata generazionale. Tutto si svolgeva tra casa mia, le piazze i bar del centro storico e la tipografia delle Edizioni Abete, dove andavo, in via Prenestina, portando tra le mani testi e disegni, indicazioni e lucidi. Non c’erano le mail, non c’era il web. Oggi è tutto cambiato, chiunque può pubblicare sui social o su carta, in una specie di democrazia della poesia. Ormai c’è un’altra generazione, interamente nata sul web.
È davvero singolare che la semina di quella mia lontana generazione sembra dare i suoi frutti più maturi proprio in questi mesi. Alcuni di coloro che erano partiti da “Prato pagano” hanno poi intrapreso strade diversein ordine sparso, come è naturale, e pubblicando chi prima e chi dopo, ma non era mai accaduto che, a quarant’anni di distanza, molti dei nuovi libri fossero di autori romani pubblicati su “Prato pagano”, a cominciare da Beppe Salvia con Cuore (Interno Poesia), e poi sono arrivati i libri nuovi di Magrelli, Scartaghiande, Anedda, Bre, Damiani e Albinati, e perfino il mio. Mancherebbe Pietro Tripodo e chissà che non sia in arrivo.
Nelle pagine finali lei scrive: «Che la poesia sia un esercizio continuo di spoliazione fino alla povertà, anzi alla nudità, si sapeva, come già detto.» In cosa consiste per lei questa spoliazione?
Il poeta iper moderno del nuovo secolo ha subito una vera spoliazione. Il poeta è sempre stato povero in tempi di povertà, come è stato più volte detto. Ma in questi anni ci si è compiaciuti di questo impoverimento. C’è stato un lavoro di ulteriore erosione e di sottrazione anche se la poesia è ricca, curata da tanti giovani, pubblicata in tanti modi, e forse spaventa per questo. Per quanto mi riguarda non amo il riprovevole io e preferisco il noi o il voi, però l’io nella poesia autentica è di per sé un noi o voi. Se parlo di me, parlo anche di voi e di noi. Il personale è pur sempre collettivo e se oggi riguarda me avrà riguardato o riguarderà anche te e non amo la tromba e neanche il cilicio. In questo sono molto oraziana, nell’aurea mediocritas.
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Lei si chiede: «ma chi oggi si azzarderebbe a definirsi poeta senza incorrere in facile ironia e scontato dispregio?» E allora non posso che rivolgerle un'altra domanda, con una punta polemica e un po' di rammarico: c'è ancora spazio per la poesia nella nostra società?
Condivido pienamente la polemica e il rammarico per l’espulsione della poesia dalla società. Ma credo che sia sempre stato così. Nella scuola soprattutto e nelle università la poesia è stata invece letta e studiata anche se non so bene se sia ancora così. I poeti antichi avevano a sostegno i mecenati, nel medioevo i poeti lavoravano per duchi e arciduchi, oggi abbiamo solo gli editori. Al liceo avevo un ragazzo che mi regalava libri di poesia, indimenticabile un bel libro rosso di Lorca. Ma è ancora così? I ragazzi e le ragazze si regalano libri di poesia? Fatelo, per cortesia. Sicuramente ci sono molti giovani, magari cacciati dall’università italiana e diventati comunque più europei, che studiano la poesia e pure meglio di un tempo, e magari riescono a diffonderla fuori dei ristretti confini. I poeti pubblicano, ci sono, e lavorano molto, tengono viva la lingua italiana. Ci vogliono per loro dignità e rispetto. Il minimo da chiedere in un tempo che sembra disumano, tanto è violento.
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Per la prima foto, copyright: Thought Catalog su Unsplash.
Per la terza foto, copyright: Dino Ignani.
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