La Penelope “capovolta” di Ghiannis Ritsos
Nell’Odissea di Omero, Penelope è la fedele, devota sposa di Ulisse/Odisseo, colei che per venti anni immola se stessa sull’altare della fedeltà coniugale, aspettando l’improbabile ma non impossibile ritorno del suo sposo. Non è questa l’immagine di Penelope, però, che emerge dalla struggente poesia di Ghiannis Ritsos. Il poeta neogreco fa emergere di Penelope un volto tremendamente umano, disperato e moderno, non solo di moglie e madre, ma anche e soprattutto di donna. Recita il testo:
Penelope
Non era possibile che non lo riconoscesse alla luce del focolare; non c’erano
i panni logori del mendicante, il travestimento, no; segni certi:
la cicatrice sul ginocchio, la forza, la furbizia nell’occhio. Terrorizzata,
appoggiando la schiena al muro, cercava una giustificazione,
ancora un intervallo di tempo di breve durata, per non rispondere,
per non tradirsi. Per lui, dunque, aveva speso vent’anni,
venti anni di attesa e di sogni, per quest’infelice,
per questo vecchio grondante sangue? Si lasciò cadere su una sedia
guardò lentamente i pretendenti morti sul pavimento, come se guardasse
i suoi propri desideri morti. E:”Bentornato”, gli disse,
sentendo estranea, lontana la sua voce. Sulle ginocchia il telaio suo
riempiva il soffitto di ombre a forma di grata; e quanti uccelli aveva tessuto
con cuciture rosse lucenti su fogliame verde, all’improvviso,
quella notte del ritorno, finirono in nera cenere
volando basso nel cielo piatto dell’estrema sofferenza.
(da “Pietre, Sbarre, Ripetizioni (Einaudi, 1978) – trad. italiana di N. Crocetti)
Il poeta scrisse questa poesia nel 1968, durante un periodo di deportazione cui fu condannato dal governo greco per la sua militanza nello schieramento di sinistra. Furono anni di sofferenza e angoscia per Ritsos. La poesia divenne per lui l’unico mezzo di rivendicazione della propria dignità.
La “Penelope” presenta tutte le caratteristiche delle altre poesie di Ritsos, contenute nella raccolta “Pietre, Sbarre, Ripetizioni”. Anche queste, infatti, ripetono e reinterpretano antichi miti classici che l’autore, proprio perché di nazionalità greca, sente particolarmente, addirittura come parte integrante del suo essere, ma che costituiscono anche un motivo per una fuga nel passato, giustificata da un presente tragico e disperato di prigionia, violenza, umiliazione. Il passato a cui allude Ghiannis Ritsos è un mondo mitologico che, però, non è idealizzato; esso, al contrario, diventa uno specchio in cui si riflette una dolorosa immagine del presente.
Penelope è stata sempre considerata il modello della sposa fedele e sottomessa, ma avveduta; il fatto che metta alla prova Odisseo era giudicato come un segno di prudenza. Secondo Ritsos, invece, Penelope riconosce Odisseo a prima vista. Ella identifica il marito da alcuni “segni evidenti”. Viene menzionata la cicatrice sul ginocchio, fondamentale nel poema omerico, ma qui posta in secondo piano rispetto al vigore e all’astuzia, le caratteristiche principali della personalità di Odisseo. In questo modo, ignorando il famoso episodio della “prova” del letto matrimoniale, Ritsos sorvola sul problema della diffidenza di Penelope, per soffermarsi, invece, sulla sua stupefacente reazione. La donna, infatti, è spaventata. Si aspettava che Odisseo tornasse, bello e giovane, a liberarla dalla situazione intollerabile in cui si trovava a causa dei Proci, per portarle finalmente la gioia: solo in questo momento, vedendosi davanti un uomo invecchiato, vestito da mendicante e sporco di sangue, si chiede se il suo desiderio di lui non fosse causato solamente dall’avversione per i Proci. Capisce che, mentre finora aveva avuto la possibilità di contrastare i pretendenti con la sua libertà di non scegliere, ossia con lo stratagemma della tela tessuta di giorno e disfatta di notte, ora non può ribellarsi ad Odisseo, suo legittimo marito. Si appoggia alla parete, come se si sentisse svenire: Odisseo l’ha messa letteralmente con le spalle al muro poiché – consapevole di non poter esternare in alcun modo lo sconcerto che prova nel cuore – non sa cosa dire: ecco il silenzio. Poi, priva di forze, si getta su una sedia in un’atmosfera livida e carica di tensione. Finalmente, con un sottile filo di voce dice, quasi fosse obbligata: “Benvenuto”. La sua voce, però, suona estranea e lontana alle sue stesse orecchie, poiché i suoi sentimenti sono l’esatto contrario di ciò che questa parola esprime.
Guarda i cadaveri dei Proci “come guardasse morti i suoi stessi desideri”, non perché volesse i Proci ma perché, quando essi erano vivi e l’assediavano, tormentandola con le loro prepotenze, poteva cullarsi nelle sue fantasie, idealizzando il marito e immaginando il suo ritorno come il momento più bello della sua vita: l’impatto con la realtà ha invece spezzato bruscamente ogni sua illusione. Ricorda di aver tessuto tele con fili rossi (simbolo di vita) e verdi (simbolo di speranza), progettando per se stessa un’esistenza migliore e felice non appena lo sposo fosse tornato. Adesso, invece, quello stesso telaio, che prima era il suo alleato e la sua unica arma contro i Proci, proietta sul soffitto ombre di sbarre, simbolo della sua prigionia: d’ora in poi, fino alla morte, non sarà altro che la moglie di Odisseo, intenta a tessere – perché questa è l’unica occupazione destinata alle donne – ed utilizzerà fili grigi (simbolo di monotonia) e neri (simbolo di disperazione e dolore), senza più lo scopo di difendersi o la speranza di una vita migliore.
Dopo aver letto il testo di Ghiannis Ritsos, la Penelope di Omero non apparirà più la stessa.
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L’immagine è tratta dal film Odissea (1968) di Franco Rossi. Lei è Irene Papas, nel ruolo di Penelope.
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