La paura distrugge la bellezza. “Si spengono le stelle” di Matteo Raimondi
È potente l’emozione della paura, così tanto da avere in sé la capacità di salvare un uomo e di preservare la bellezza della sua esistenza, dei suoi gesti, dei luoghi in cui si muove. Ma allo stesso tempo porta con sé un’ombra distruttiva, in grado di affermarsi quando l’umanità precipita negli abissi e a guidarla non è più la ragione.
È quello che accade nella tela narrativa costruita da Matteo Raimondi nelle quattrocentosessantotto pagine del suo romanzo d’esordio, Si spengono le stelle (Mondadori, 2018), che ci accompagna a York, una colonia inglese non distante da Boston.
È proprio in quelle terre lontane del Nuovo Mondo che, alla fine del ‘600, si snoda la storia dei Walcott, una famiglia i cui legami si riveleranno l’unica ancóra di salvezza a cui tutti i componenti – il padre Robert, la madre Mary e i figli Susannah, Lizbeth e William – si appiglieranno per non soccombere alla disperazione e per tentare, fino all’ultimo, di ribellarsi a una sorte macchinata dalla brama di potere e dalla sete di vendetta di figure manipolatrici e potenti, disposte a tutto pur di raggiungere i loro obiettivi.
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Vari personaggi si muovono attorno ai Walcott: un reverendo puritano, ma pieno di ossessioni e perversioni, un giovane ragazzo vittima delle sue insicurezze e della sua viltà, gli abitanti della colonia che, a vario titolo, covano invidia e rancore nei confronti dei Walcott, gli spettri delle comunità indigene. La trama però si sfila principalmente attorno alla primogenita Susannah, una diciassettenne detentrice di un dono speciale e insofferente ai limiti imposti dalla comunità in cui vive. Un’irrequietezza ben manifesta che la rende facile bersaglio di pregiudizi e di atteggiamenti ostili, soprattutto da parte delle sue coetanee che, per questo, non esitano a definirla strana, pazza, diversa.
Un filo invisibile e inspiegabile, che svelerà la sua origine e il suo potere solo con il procedere della narrazione, lega la giovane protagonista alle comunità autoctone, alle loro tradizioni, alle loro credenze e, fin dalla sua infanzia, fa di lei una persona così libera e indipendente da incutere timore.
Susannah allora sollevò gli occhi e lo guardò. «Avete paura.»
Pery sghignazzò. «Paura? Di te?»
Susannah scosse la testa. «Di ciò che rappresento.»
Donald allora si sporse dal tavolo. «E cosa rappresenti, ragazza?»
Senza esitazione Susannah gli rispose: «La libertà».
La sua personalità trae forza proprio dalla libertà di pensiero e di azione che, unita alla rara bellezza, finiscono per intrappolarla in una ragnatela di maldicenze e risentimenti, i cui fili la trascineranno in un processo per stregoneria, dai tratti drammatici e nefasti, che sconvolgerà l’esistenza della famiglia e di tutta la colonia.
A fare da sfondo allla storia vi è infatti ciò che doveva essere il Nuovo Mondo, ma che alla fine si rivela il riflesso e la continuazione di quel vecchio mondo lasciato dai padri pellegrini che, tuttavia, non sono stati in grado di rompere con le loro origini. E in particolare di costruire una nuova società, scevra dalle regole puritane e da tutto quel sistema di false verità che aveva sconvolto – e sconvolgerà anche successivamente – il vecchio continente, teatro per secoli di numerosi processi per stregoneria che hanno lasciato una macchia indelebile sulle lenzuola storiche europee.
«Siamo incapaci di conservare le cose belle, come se sapessimo solo distruggere. Lo abbiamo fatto anche qui. Tua madre ti ha descritto questo posto com’era prima? […] Tutti erano più liberi, senza paure che potessero trattenerli.»
Susannah – e tutta la sua famiglia – è il simbolo invece di un mondo capace di mettersi all’ascolto dell’altro, approcciandosi all’ignoto e alla diversità con gli occhi curiosi e immuni da qualsiasi pregiudizio, così come dimostra il suo attaccamento alla tata indiana Nagi. Quest’ultima infatti, dopo la sua morte, le lascia in eredità la conoscenza di un mondo sì differente da quello a cui Susannah è abituata, ma ricco di insegnamenti e portatore di concetti spirituali, come il legame con la terra e la necessità di vivere in armonia con l’universo. Concetti che ben potrebbero conciliarsi con i valori cristiani dei coloni se questi ultimi non li avessero viziati di estremismo e arroganza, dell’affermazione del predominio della razza bianca sulle altre razze, delle proprie credenze su quelle delle altre popolazioni, mettendoli spesso al servizio di figure narcisistiche e malate di onnipotenza, ben rappresentate da Raimondi attraverso una delle figure chiave del romanzo, il reverendo Randall.
Quello sparso nelle terre del Nuovo Mondo è quindi un sangue versato non solo in nome del re d’Inghilterra, ma è anche in nome della religione e in virtù di un’immagine dell’altro costruita appositamente per renderlo un nemico capace di commettere le più gravi nefandezze.
«Ma loro non sono sue creature. Forse non sono neanche uomini…Vivono come bestie. Mangiano come bestie. Si riproducono come bestie…Combattono come bestie, bevendo il sangue dei loro vinti. Sono bestie.»
E se da una parte gli indigeni si rendono colpevoli di aggressioni efferate, il cui marchio distintivo è la scotennatura, dall’altra non bisogna dimenticarsi che sono stati privati, con la forza, dei luoghi da sempre appartenuti a loro, in nome di quel processo di “civilizzazione” che non ha risparmiato distruzione, torture, stupri, saccheggi e violente imposizioni di regole e tradizioni.
La demonizzazione del diverso è una costante del romanzo di Raimondi e viene espressa mediante le parole pronunciate da vari personaggi, un espediente utilizzato per mostrare che un atteggiamento di questo tipo conduce sempre allo stesso risultato: la diffusione del terrore negli animi umani non può che prendere successivamente la forma di atti brutali e inumani. Perché quando si insinua la paura del diverso e la si sfrutta allo scopo di far germogliare l’odio verso un soggetto considerato pericoloso non solo per l’intera comunità, ma anche per la propria esistenza, la propria casa, la propria sicurezza, la propria famiglia, non si fa altro che scavare negli angoli più reconditi dell’animo umano, grattugiando proprio sugli strati di quella malvagità insita nella natura umana.
«Era accaduto qualcosa in grado di sconvolgere la normalità di York, della loro vita, e di far nascere la paura. La paura fa germogliare i semi del sospetto; il sospetto apre la strada alla rabbia e la rabbia, lo sanno tutti da qualunque era e generazione, è il primo stadio della follia.»
Al termine del romanzo resta l’amaro in bocca e un graffio che attraversa tutto il perimetro del cuore del lettore, che si trova davanti a un epilogo che solleva un quesito a cui nessuno dovrebbe sottrarsi: vale la pena dare spazio alla paura distruttiva dell’animo umano, o non sarebbe più giusto, per tutti, vedere nella diversità una fonte di bellezza e ricchezza da cui attingere per sfuggire a quel lato oscuro e umano, sempre in agguato e pronto a spingere gli individui gli uni nelle fauci degli altri?
Con una scrittura che alterna continuamente i punti di vista dei personaggi, prendendo per mano il lettore e facendogli fare un salto dentro le pagine del libro come dentro a un quadro, l’autore riesce a fargli vivere le immagini narrate come se fossero reali, suscitando spesso una sensazione di angoscia per ciò che sta accadendo e che si teme accadrà. Ciò è reso possibile non solo grazie ai numerosi dettagli relativi agli ambienti in cui si snodano le vicende, ma anche grazie all’abile rappresentazione delle atmosfere, enfatizzate dai continui riferimenti al cielo, all’addensarsi delle nuvole, alla luce e al calore del sole, alla pioggia, all’alternarsi delle stagioni, all’inizio del giorno e della notte.
La capacità descrittiva di Raimondi è innegabile e ciò si rivela soprattutto nella caratterizzazione psicologica dei protagonisti, ma lo è ancora di più nella narrazione meticolosa delle loro azioniche in alcuni casi – come l’esecuzione di un indiano – richiedono una pausa dalla lettura per il loro carattere raccapricciante, al limite del macabro. Ma se questa minuziosità si rivela a volte eccessiva, in particolare quando l’autore si spinge nel mondo dell’onirico e dell’immaginazione, spezzando l’alto ritmo narrativo e facendolo precipitare di colpo nella monotonia, nelle pagine più cruente, pur provocando una morsa nello stomaco, si rivela invece un espediente rivelatore di uno dei messaggi che attraversa l’intero romanzo: ecco fino a quali bassezze può arrivare l’uomo quando è annebbiato dalla malvagità, dall’ignoranza e dal desiderio incontrollato di prevaricazione.
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Mescolando avvenimenti storici a immagini frutto della fantasia, del sogno e della magia, Matteo Raimondi porta il lettore in un mondo lontano nel tempo e nello spazio, ma contemporaneamente molto vicino alla realtà odierna in cui i temi della diversità, dell’odio e della paura ricordano quanto sia alto il pericolo che l’umanità commetta gli stessi errori del passato, soprattutto nel momento in cui vengono abbattuti i confini della tolleranza, della fraternità e della solidarietà a beneficio dell’individualismo e dell’affermazione di una qualsiasi presunta superiorità: razziale, sessuale, religiosa, culturale, sociale.
«Nessun dio metterebbe le sue creature l’una contro l’altra per un pezzo di terra», scrive l’autore in una delle sue pagine, affidando queste parole, ancora una volta, alla protagonista. E in questa frase si può racchiudere il senso di tutta la storia narrata: qualsiasi entità superiore e misteriosa, non importa quale nome abbia, vorrebbe che la ragione umana continuasse a brillare come le stelle perché solo così gli esseri umani si accorgerebbero che le angolazioni da cui si può guardare il cielo sono tante, ma la sua bellezza è una sola. Basterebbe non avere paura di osservarla con occhi diversi.
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