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La particella di Dio, ecco com’è nato l’universo. Intervista a Guido Tonelli

La particella di Dio, ecco com’è nato l’universo. Intervista a Guido TonelliNegli ultimi tempi abbiamo sempre più sentito parlare della particella di Dio, almeno stando alla definizione giornalistica. Ci riferiamo al bosone di Higgs, cioè alla particella che ha dato l’avvio per la nascita del nostro universo. Ne abbiamo discusso in una piacevole chiacchierata con Guido Tonelli, uno dei protagonisti della scoperta del bosone di Higgs al CERN di Ginevra.

Professore di Fisica all’Università di Pisa, Tonelli ha ricevuto numerosi riconoscimenti, fra cui il Fundamental Physics Prize, il premio Enrico Fermi e la medaglia d’onore del Presidente della Repubblica. Finalista al Premio Galileo 2017 con La nascita imperfetta delle cose. La grande corsa alla particella di Dio e la nuova fisica che cambierà il mondo (Rizzoli, 2016) e attualmente nelle librerie con Cercare mondi. Esplorazioni avventurose ai confini dell’universo (Rizzoli, 2017).

 

Professor Tonelli, a quanto pare il 95% dell'universo e del suo funzionamento ci è del tutto sconosciuto. È uno dei primi insegnamenti che trasmette ai suoi studenti. Da scienziato però cosa vuol dire convivere con una tale consapevolezza?

Diciamo che questa è un po’ la differenza che corre tra gli scienziati e la gente comune. La maggior parte delle persone pensa che la scienza sia stata capace di dare le risposte praticamente a tutto. Noi scienziati invece sappiamo che, nonostante gli enormi progressi conseguiti negli ultimi decenni, le questioni aperte sono ancora vaste. Siamo consapevoli della nostra ignoranza, comprendiamo meglio i confini di questa mancanza, mentre nell’opinione pubblica c’è questo cieco affidarsi alla scienza e agli scienziati come se avessero il monopolio di una conoscenza che ha pervaso tutti gli angoli della materia, dell’universo e della biologia. Non è assolutamente così.

 

In questo, se vogliamo, lei è un po’ socratico: “So di non sapere”.

Sì, ritorna il vecchio adagio. Anche Newton era solito usare l’espressione “Quel che sappiamo è una goccia dispersa in un mare d’ignoranza”. Era vero nel Seicento, così com’è vero oggi.

 

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In quel margine di inesplorato di cui sopra, per un ricercatore quanta parte hanno facoltà come l’intuizione e – elemento sul quale, forse, non ci si sofferma abbastanza – l’immaginazione?

Qui bisogna partire dalla considerazione che se è vero che dobbiamo ancora risolvere questioni fondamentali è perché non abbiamo ancora individuato il modo di affrontarle. Può trattarsi di un problema teorico, ovvero non abbiamo teorie abbastanza sofisticate per capire alcuni fenomeni che al momento ci sfuggono, oppure non disponiamo della tecnologia. Nel caso della fisica, per esempio, apparecchiature che non sono ancora in grado di misurare alcune grandezze. Oppure manchiamo della sensibilità necessaria per istituire dei parametri adeguati a far luce in questi ambiti oscuri. Quando sei di fronte alla necessità di sviluppare nuove teorie o di creare nuovi strumenti, è quello il terreno dove fare affidamento sulla creatività e sull’intuizione. Anche sull’errore. Il tutto si traduce nell’imboccare molte strade, ben sapendo che alcune non condurranno da nessuna parte, con la segreta speranza che almeno una via produca quelle innovazioni che permettono di far avanzare il sapere.

 

All’inizio di La nascita imperfetta delle cose lei scrive: «Siamo quelli che la gente chiama scienziati, truppe speciali della conoscenza che l'umanità manda in avanscoperta a capire come funziona la natura». Nonostante questo, non mancano episodi in cui sono in molti a dimostrare una certa diffidenza verso il mondo della scienza. Mi riferisco a recenti fatti di cronaca, all’acrimonia con cui si parla, talvolta, della scienza sui social network. Mi viene in mente, per dire, la recente questione sui vaccini. Cosa possono fare gli scienziati per ricolmare questo gap?

La situazione è abbastanza sorprendente. Non c’è mai stata, nelle epoche precedenti, una società come la nostra, così dipendente dalla scienza e dalla tecnologia. Le stesse persone che ne diffidano la utilizzano in modo capillare. I cellulari, i tablet, i Pc sono delle protesi che permettono loro di fare delle cose inimmaginabili fino a cinquant’anni fa. Del tipo, prendo il mio smartphone e faccio una videochiamata a un amico all’altro capo del mondo… è incredibile! Eppure non comprendendo come questo avvenga, o solo in parte, se ne ha come un’immagine mitica. Dietro queste dinamiche c’è una sorta di sensazione di onnipotenza, privata però della conoscenza, perciò se ne ha un misto di soggezione e di paura. Da un lato si enfatizzano: si immagina un futuro in cui le macchine faranno cose sempre più incredibili, ma d’altro canto temiamo che non riusciremo a dominarle. È probabile che la diffidenza nei confronti della scienza sia una manifestazione di questa angoscia, che si esprime nella forma della diffidenza. Non so se si ricorda della querelle a proposito degli uomini che sono andati sulla luna: per anni furono in molti a pensare a una ricostruzione hollywoodiana, in studio. Ci sono ancora milioni di persone che credono che la passeggiata lunare di Armstrong sia una bufala. Per tornare alla domanda: cosa possono fare gli scienziati? La prima cosa che consiglierei a me e ai miei colleghi è di mostrare umiltà, cioè non reagire a questi timori con arroganza, perché si verrebbe a creare una barriera che impedirebbe il dialogo. Se si parla, per esempio, di vaccini è bene discuterne apertamente, citare i dati in nostro possesso, senza pretendere che la gente si convinca. Se si tiene un atteggiamento di chiusura o contrapposizione, tutto questo è destinato a riprodursi. La scienza è un’attività sperimentale: se l’aspirina fa passare la febbre, lo possiamo dimostrare, così come possiamo dimostrare i suoi effetti collaterali, sulla base di numeri, comprensibili a tutti.

 

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Il suo è un atteggiamento molto positivo, ma se da parte dell’opinione pubblica si registrasse un incremento della diffidenza, se non della paranoia?

Devo ammettere che dovremmo accettare quest’atteggiamento. Io mi aspetto che se il progresso scientifico aumenterà con lo stesso ritmo col quale si è sviluppato negli ultimi decenni, questo si accompagnerà a un aumento della paura in una percentuale considerevole dell’opinione pubblica. Bisognerà affrontare questo problema. La divulgazione scientifica, il tentativo di far diventare patrimonio comune questo percorso è anche la spinta che mi induce a scrivere libri. Ma non degli aspetti tecnici; quanto più la scienza si limiterà a parlare dei soli strumenti tecnici e matematici tanto più la diffidenza è destinata a crescere. Se saremo in grado di raccontarci in maniera semplice e alla portata di tutti, niente vieta che le persone possano far proprie queste scoperte. Io stesso sarei preoccupato di una scienza che procedesse senza che la società fosse consapevole delle conseguenze di alcune iniziative, ricerche e scoperte. Conosco bene l’ambiente degli scienziati e per quanto sia fatto di persone ragionevoli, non possiamo dar loro la responsabilità politica, sociale ed etica di decidere a nome di tutti. Questo sarebbe un grave errore. C’è un aspetto di autodisciplina, nella scienza, che ha bisogno di confrontare i propri risultati con la società.

 

La scoperta del bosone di Higgs, della particella di Dio, ci dice molto dell'origine dell'universo, ma può fornire qualche indicazione sul suo futuro e destino? Quali applicazioni pratiche potrebbe avere questa scoperta?

Questa è una domanda che mi viene rivolta spesso. Chiaramente si tratta di un avanzamento della conoscenza. Noi possiamo ora raccontare nel dettaglio perché l’universo materiale che ci circonda ha questa forma. Fino ad ora lo vedevamo come un dato naturale, come se l’universo non potesse avere che questa forma. Ora sappiamo che il nostro universo ha preso questa strada perché è capitato qualcosa nei suoi primissimi istanti di vita, che abbiamo attribuito al bosone di Higgs. Le conseguenze pratiche di questa scoperta possono essere nulle. Non riesco a immaginarmi che si svilupperanno aziende fondate sul bosone di Higgs. Detto questo ci sono, però, due considerazioni da fare. La prima: nello sviluppare le tecnologie per scoprire il bosone, ovvero gli acceleratori di particelle, ci siamo dovuti inventare apparecchiature che non esistevano. Sensori, elettronica, sistemi informatici, campi magnetici. Tutte queste tecnologie (sto parlando di cose avvenute dieci o quindici anni fa) sono già entrate nella vita quotidiana. Al CNAOdi Pavia, un centro internazionale di adroterapia, sono stati curati ottocento pazienti per tumori cerebrali profondi. Si curano utilizzando gli adroni, cioè carbonio e protoni simili a quelli che utilizziamo al CERN. Questi pazienti sono stati curati con fasci di particelle, in quanto non era possibile intervenire chirurgicamente nelle zone profonde del cervello. Dirle che non so quali applicazioni pratiche avrà il bosone di Higgs farà ridere qualcun altro tra quarant’anni, quando leggerà quest’intervista. Io ricordo benissimo quando ci si chiedeva quali applicazioni avrebbe potuto avere il laser. Oggi basta guardarsi attorno.

 

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Lei insiste molto sull'idea del bosone di Higgs che s'installa nell'universo primordiale nell'attimo in cui tutto si è congelato, e da qui poi si è generato l'universo. Allo stato attuale dobbiamo parlare ancora di coincidenza, di casualità oppure è possibile ipotizzare altre spiegazioni?

Qui si entra un po’ in una scelta personale. Ciascuno di noi si costruisce una sua visione. Dal mio punto di vista, quello di uno scienziato non credente, quando discuto il meccanismo che produce questa rottura della simmetria, questa perdita della perfezione che genera, però, un universo che può svilupparsi per miliardi di anni e produrre galassie, stelle, pianeti, sistemi solari via via fino agli esseri viventi, tutto questo può essere spiegato benissimo con il caso, con un comportamento casuale. Non c’è bisogno di ricorrere a un progetto. L’esser stato testimone di questo processo, del tutto casuale, che porta a queste conseguenze, mi induce ad affermare, per suggestione, che in quest’universo abbiamo avuto questa configurazione, ma nulla ci vieta di pensare che ci potrebbero essere altri universi, con un assetto diverso. Ci sono, come lei sa, le teorie dei multiversi.

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Mi ha giusto dato il la per una domanda che le volevo fare in proposito. Il bosone di Higgs apre perciò scenari ipotetici in cui sarebbe possibile concepire un multiverso, ovvero più universi contigui, magari regolati da leggi fisiche differenti?

Ipotizzabile sì. Un conto è dire “ipotizzabile”, un conto è dire “siamo convinti che ci siano altri universi”. Allo stato attuale delle conoscenze è solo una congettura, una teoria compatibile e consistente con tutte le osservazioni. Il nostro potrebbe essere solo uno di una schiera di universi con caratteristiche diverse, definite da un meccanismo casuale che assegna a ciascun universo le sue peculiarità. È questo un aspetto che si sta esplorando con grande serietà. Ci sono due possibilità per verificare sperimentalmente la teoria dei multiversi. La prima prevede l’apparizione, nel mondo delle particelle elementari, di particelle molto massicce, con caratteristiche speciali. Il giorno in cui si osserveranno delle simili particelle, si potrebbe andare nella direzione che auspicava lei. Un’altra strada è quella di capire se nello spazio profondo il nostro spazio-tempo è aggrovigliato con quello di un altro spazio-tempo. Se i due universi fossero disgiunti, separati, non ci sarebbe modo di comunicare, ma se gli universi sono tanti e sono intrecciati fra loro, si sovrappongono, ecco che potremmo osservare, in una zona del nostro spazio-tempo, il deviare di un fascio di luce, in maniera erratica, e questo farebbe pensare a un vuoto, a una regione dove non ci sono pianeti, stelle, attrazione gravitazionale e perciò a un corridoio che potrebbe permettere, sempre in teoria, una comunicazione tra due universi contigui.

 

«Fino ad arrivare là dove nessuno è mai giunto prima!», come recitava la sigla di Star Trek.

Sì. Là dove la ricerca scientifica supera la fantascienza nell’ipotizzare fenomeni che sono stati, fino ad ora, anticipati solo nei racconti, appannaggio della letteratura e della mitologia.

 

Professor Tonelli, lei è entrato nella cinquina di finalisti del premio Galileo, che verrà assegnato a Padova il 5 maggio prossimo. Leggendola non ci si può esimere – e non lo dico per piaggeria – dall’apprezzare anche le sue capacità di divulgatore scientifico. Quanto le è costato in termini di energie e quale lavoro c’è dietro la necessità di rappresentare una materia complessa come la sua e tradurla in un linguaggio accessibile ai più?

Sì, è un aspetto che richiede una certa fatica. Noi siamo abituati a parlare tra specialisti, quindi a parlare per equazioni, a usare i grafici o le immagini. Nel momento in cui mi sono accinto a scrivere il libro ho deciso di non utilizzare questi espedienti; dovevo scrivere alcuni concetti complessi in parole semplici ma che non dovessero tradire i concetti stessi. Si viaggia sempre su un crinale: c’è da una parte il timore di dire una cosa che non è comprensibile dagli addetti ai lavori in quanto non precisa e rigorosa o, all’opposto, una cosa che è comprensibile a tutti i lettori ma manca del necessario rigore e precisione e altera la rappresentazione secondo criteri scientifici. Però mi è piaciuto il riscontro; ogni giorno ricevo mail di persone di tutte le estrazioni, di tutte le culture e di tutte le età. Alcuni sono colleghi e apprezzano perché è scritto bene, altri sono persone che non avevano mai dimostrato interesse per la fisica ma sono rimaste affascinate dal racconto.

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Cosa rappresenta per lei questo premio e con quale disposizione si avvicina agli appassionati, ai lettori e ai curiosi che verranno agli incontri con gli autori?

Il premio Galileo è un premio importante, perché basta vedere chi ha vinto negli anni passati. È un premio molto rigoroso, che annovera autori di prestigio, sia perché sono scienziati ma anche perché sono stati dei buoni divulgatori. Già essere nella cinquina mi ha reso felice. Mi piace come l’hanno organizzato: una prima selezione di esperti e poi gli studenti e i professori a votare.

 

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Lei che è uno studioso di provata esperienza e che di certo ha avuto giovani collaboratori, cosa si sente di dire ai giovani studiosi e ricercatori, che in una società come la nostra finiscono spesso per imboccare facili e più profittevoli scorciatoie per poi magari adagiarsi senza troppi slanci o sforzi?

Non voglio apparire come il professore saggio che dà i consigli ma spesso dico di non ascoltare nessuno. Se alcuni di questi ragazzi hanno dentro di sé in qualche forma la passione che abbiamo noi, la curiosità, l’amore per la conoscenza e la ricerca, è bene che inseguano questo sogno. Potrebbe essere difficile, è chiaro, riuscire a coronarlo. Non c’è garanzia di successo, anche la ricerca è un mondo competitivo. Un ragazzo in gamba di Padova o di Pisa, con una buona formazione, che intende fare ricerca, si confronterà con i migliori cervelli del MIT o del CERN. Non sarà facile neanche per gente molto brava e motivata, ma sono certo che se anche non realizzerà i suoi sogni di certo non se ne pentirà. Questo mi sento di garantirlo. Nella parte italiana, nell’esperimento dove lavoro io, ci sono un centinaio di giovani sotto i trent’anni.

 

Lei è un esempio pratico dell’eccellenza italiana nella Scienza. Riguardo al nostro paese, dove si parla spesso di “fuga di cervelli”, come si sentirebbe di motivare chi parte rassegnato all’idea che in Italia non si possa fare ricerca e bisogna per forza spostarsi all’estero?

Questo problema ha colpito anche il nostro settore. Negli ultimi due anni, però, sembra che ci sia un ripensamento da parte dei governi. Per qualche tempo siamo rimasti in questa condizione: abbiamo centinaia di ragazze e ragazzi bravissimi che si laureano, prendono il dottorato, partecipano a grandi esperimenti, si confrontano con i migliori giovani del mondo e spesso si distinguono. Uno pensa che da un tale vivaio si possano ricavare i migliori ricercatori per le nostre università; nulla di garantito ma concorsi e selezioni feroci. Con l’avvento della crisi, dal 2010 in poi si sono bloccati tutti i concorsi. Io mi sono ritrovato a scrivere lettere di presentazione per i miei collaboratori a tutte le università del mondo. Era bello – ma con un po’ di amarezza – che li assumessero. Hanno avuto soddisfazioni, ma noi abbiamo perso menti brillanti. Quel che è brutto, dopo qualche anno di stagnazione, è quando arriva il messaggio “guarda che in Italia non si assume più”. Per noi il blocco delle assunzioni nel pubblico impiego è stato quasi peggio che ridurre i fondi per la ricerca. Possiamo sopravvivere, stringendo la cinghia, ma non possiamo chiudere la porta alle nuove generazioni. Di recente c’è stato un concorso nazionale per settantacinque nuovi ricercatori e questo cambia subito le prospettive. All’estero si guadagna il doppio di quel che si guadagna in Italia, ma ci sono lo stesso giovani che desiderano rimanere nel loro paese. Non considero un problema che i nostri salari siano dimezzati rispetto a quelli della Germania o degli Stati Uniti. Considero più grave il ripetersi, assurdo, di questo blocco. Un messaggio terribile e negativo.

 

Speriamo che ci sia una volontà politica e amministrativa, anche nell’immediato futuro.

Ho scritto a molti ministri di questo governo e dei precedenti, in proposito. Bisognerebbe fare un patto politico; sulla ricerca e sull’università non ha senso che ci siano differenze tra centro, sinistra, destra, alto e basso. Questa è una ricchezza del nostro paese, come il patrimonio artistico. Quale forza politica può pensare che in Italia non si debba conservare e sviluppare il nostro patrimonio artistico? Come si fa a non vedere che abbiamo menti brillanti da coltivare, da attirare, da stimolare e promuovere?


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