La parola che aggiusta. “Se mi tornassi questa sera accanto” di Carmen Pellegrino
Se mi tornassi questa sera accanto. Inizia così la poesia A mio padre di Alfonso Gatto, poeta che con Carmen Pellegrino ha più di qualche addentellato, come vedremo. Il fatto che la giovane autrice (classe 1977) salernitana abbia voluto titolare così il suo secondo libro, dopo il felice esordio di Cade la terra (Premio Rapallo Carige Opera Prima e Premio selezione Campiello) la dice lunga –prima di imbastire altre considerazioni – sulla sua intenzione d’imperniare il romanzo sul rapporto padre-figlia. C’è forse qualcosa di suo padre in Giosuè Pindari, uomo tutto d’un pezzo, con un piede nell’Ottocento, un legame ancestrale alla sua terra d’origine, che affida al fiume (che lui chiama “fiumeterra”) lettere in bottiglia colme di sentimento, indirizzate alla figlia che se n’è andata per non tornare più. I suoi scritti testimoniano di una senile e (forse) tardiva consapevolezza di non essere riuscito a comunicarle quanto l’ha amata e quanto l’ama, il rimpianto di non aver tenuto in debita considerazione le sue necessità, di averla sempre controllata in tutto, padre e padrone, di averla privata, nel nome di una fede cieca nei suoi principî e ideali politici, della possibilità di autorealizzarsi, di essere felice.
Si era innamorato dell’ideale socialista, Giosuè Pindari, quando aveva avvertito il dolore e le lacrime sincere del presidente-partigiano Sandro Pertini, in visita alle macerie del terremoto che sconvolse l’Irpinia nel 1980. Si era iscritto al partito e con l’amico Filippo Antinoni vi aveva militato a lungo, fino alla Grande Delusione del 1992, anno degli scandali di Tangentopoli e delle manette che decretarono la fine della Prima Repubblica. Pellegrino racconta in un’intervista che anche suo padre era socialista, impregnato di un ideale puro e romantico; lei entrò in conflitto con la figura paterna quando decise di iscriversi ai giovani comunisti. «Noi non siamo come voi», rimproverò la figlia al padre, ma lui la ricondusse nell’alveo della sua realtà: stava pagando un mutuo, non si erano mai visti flussi sospetti di denaro in casa sua. L’unica colpa, come forse analizzava Pasolini a suo tempo, era stata quella, da piccolo borghese, di aderire a un partito che fosse meno massimalista e radicalizzato per certi aspetti, ma comunque vicino al sogno di un ideale morale di giustizia, di bene comune e uguaglianza sociale.
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Non si dà per vinto, Giosuè. La Grande Delusione lo ha piegato, così come lo ha piegato la vicenda della moglie Nora, prigioniera della sua malattia mentalea causa di una giovane delusione amorosa (che, si insinua tra le righe, potrebbe essere un ulteriore parto della sua fervida quanto disturbata immaginazione) eppure trova la forza di coltivare il pensiero dell’Ignoto Ideale: case erette sulla sponda del fiume, per i contadini e gli operai, terra fertile per tutti in quel remoto angolo dell’appennino lucano, l’assistenza medica gratuita e il bus per accompagnare a scuola i giovani virgulti. Pellegrino risemantizza il termine “disperanza”, di montiana memoria, e lo declina in una forza primordiale che fa inseguire la speranza anche nelle situazioni più disperate, l’intimo convincimento di Giosuè che anche la malattia della moglie possa guarire e che lei e la figlia possano contribuire alla realizzazione del suo ambizioso progetto. Per questo Lulù deve accantonare la sua passione per la poesia e iscriversi ad agraria, per «non divenire avida di futuro, senza più ricordare».
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Con la laurea di Lulù nel “fiumeterra” arrivano le pale eoliche e i ripetitori telefonici; tramonta definitivamente il sogno utopico del padre. La figlia sente ch’è il momento giusto per sfilarsi da una famiglia che le ha sottratto ogni cosa, i cui membri hanno vissuto per decenni incapsulati nelle loro prigioni mentali, a distanze siderali, senza speranza di entrare in contatto: Giosuè perduto nella sua visione salvifica, la madre nella sua demenza. Il libro è bipartito: La prima parte si intitola Di qua dalle mura ed esplora la dimensione di casa Pindari; nella seconda, Di là dalle mura, Lulù cerca nella fuga in una località del Nord, vicino a Pavia, l’esperienza dell’altro-da-sé e la trova in Andreone, un signore un po’ cialtrone che vive in una casa galleggiante nell’attesa di una piena del fiume e di una donna perduta che si è accorto di amare proprio quando lei se n’è andata. Lulù, che del fiume conosce ogni cosa perché suo padre l’ha istruita al riguardo, fin dalla più tenera età, finisce per vivere ancora una volta nei pressi di un fiume: è un legame che non si recide, quello con le proprie radici, un legame che forgia, insopprimibile, che vincola alla terra natia. Andreone è così diverso da suo padre: è capace di gesti affettuosi, come un abbraccio alla fine di un bel discorso, là dove il padre provava un senso di pudore nel manifestare il suo lato affettivo. È quel sentimento di libertà, la possibilità di operare, a distanza, un confronto col mondo che ha lasciato, che permette a Lulù di elaborare una nuova consapevolezza e di tentare una possibile riconciliazione.
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Persiste un’atmosfera sospesa e antica in questo libro, un senso profondo del passato e di una tradizione letteraria – non solo del romanzo del Sud d’Italia, di argomento popolare e non – che trova nella scrittura scarna e levigata, quasi paratattica di Carmen Pellegrino, il suo contraltare. Non per niente l’autrice è stata definita a più riprese dalla critica, per i suoi studi scientifici sulle rovine, per le sue indagini sui luoghi abbandonati, una “abbandonologa”, neologismo che costituisce, comunque, un ponte tra passato e presente (l’età e la sensibilità, squisitamente “moderni”). Forse sono proprio queste le caratteristiche che infondono un senso di freschezza nel dettato di Se mi tornassi questa sera accanto (Giunti, 2017), unite a un soffuso lirismo, che ammanta le pagine del romanzo (il linguaggio delle lettere del padre, per esempio, e le nutrite citazioni ai poeti più frequentati: Emily Dickinson, Eugenio Montale, Giorgio Caproni, Antonia Pozzi, Paul Éluard, Dante e Leopardi ma anche e soprattutto l’amato conterraneo Alfonso Gatto, che le fa strada fin da piccola con i suoi versi e di cui ebbe modo di conoscere la figlia).
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Più che nei riferimenti extratestuali e letterari, talvolta un po’ di maniera, nella prosa improntata a una sorta di realismo magico (così com’è stato definito il registro stilistico di Pellegrino), Se mi tornassi questa sera accanto svela le sue pagine migliori in alcune squisite invenzioni: la relazione retroattiva con la madre Nora, (splendido personaggio, a mio avviso), in apparenza priva d’amore per la figlia. Lulù scoprirà alcuni scritti della madre, dei resoconti nei quali ha partecipato a funerali di sconosciuti del paese. Questi reperti sono la testimonianza tangibile del rifugio della madre in una scrittura segreta, che esprime empatia e la vicinanza a un certo tipo di dolore, ma soprattutto che consegna alla figlia la chiave di decrittazione avendole insegnato, quand’era piccola, la lettura per mezzo dello specchio di una scrittura a rovescio. «Sua madre, ormai le era chiaro, apparteneva alla genia degli scriventi clandestini e il senso invertito dei suoi scritti le arrivava come una carezza, non tanto per il contenuto, giacché parlavano solo di morte, ma perché nonostante la morte Lulù coglieva un’onda di luce, talvolta un accenno di allegria, attraverso parole finalmente comprensibili». Bello anche il disegno della casa dei Pindari, opera di Andrea Lezoli, che documenta il tentativo di Giosuè di riattare (sfidando il destino avverso), di trasformare la facciata dell’abitazione da “triste” a “felice”. Un momento tragicomico ben riuscito è anche quello in cui Pindari e Antinoni si incontrano a un’assise del partito completamente disertata. Di fronte al teatro vuoto Antinoni declamerà comunque il suo discorso, a cui farà seguito il fragoroso applauso colmo di commozione dell’amico di sempre.
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Romanzo del distacco e della distanza, apologo di una certa incomunicabilità generazionale, Se mi tornassi questa sera accanto di Carmen Pellegrino scopre nel fiume la metafora più consona a creare una sponda per stabilire una pur fragile relazione là dove tutto sembra votato al fallimento, alla quale affidare un messaggio, «tirare via qualche parola dalla polvere della dimenticanza» perché, come pensa Lulù, la vita dei figli dell’uomo è complicata: cercano il perdono definitivo per quello che fanno ma non perdonano mai se stessi per quello che non hanno fatto. «E poi c’era questa cosa che la tormentava da quando aveva memoria, questa riluttanza o forse incapacità degli uomini di dire una parola che ripara, la parola che aggiusta».
Per la prima foto, la fonte è qui.
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