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“La parabola dei ciechi” di Gert Hofmann, come descrivere un quadro

“La parabola dei ciechi” di Gert Hofmann, come descrivere un quadroDescrivere un quadro con le parole è l’intento di Gert Hofmann quando, negli anni Ottanta, decide di tramutare in racconto breve un quadro del maestro fiammingo Pieter Bruegel il Vecchio. L’opera in questione è La parabola dei ciechi, una tempera su tela esposta al museo nazionale di Capodimonte a Napoli. Prima di lui il dipinto era stato d’ispirazione sia per Baudelaire che per Maeterlinck e questo la dice lunga sulla fortuna artistica del maestro fiammingo. Per cui, a quattrocento anni di distanza anche Hofmann si accende di un estro creativo che, oggi, ci viene tramandato da Racconti edizioni con la traduzione di Tiziana Prina.

La parabola dei ciechi ci guiderà nella scoperta di otto punti utili a ispirare chiunque voglia provare l’esercizio di tramutare in narrativa un’immagine; allenamento di incredibile efficacia se pensiamo che molto spesso l’ispirazione deriva proprio da una foto, una fantasia o un sogno. Senza dimenticare il ruolo più importante di questa liaison tra visuale e concettuale: la narrativa tutta forse non è altro che il saper regalare un’immagine a partire dall’astratto di un’emozione o di un pensiero.

 

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Iniziamo dunque con il primo punto sulla lista:

 

1) Storytelling. Hofmann s’immerge nel mondo del quadro e architetta una storia fondata, in questo caso, su un unico e potente stratagemma, che ha fatto la fortuna di molte altre opere legate al dipinto di Bruegel, ovvero l’intima fragilità del cieco dinanzi al mondo. Sei personaggi ciechi significa sei volte più disarmo e angoscia. Si aiutano l’un l’altro ma nessuno può veramente guidare con cognizione di causa. È la metafora dell’essere persi nel mondo, che va molto oltre la mera cecità del bulbo oculare. Il quadro del maestro offre a noi discepoli una tale vastità di animo umano che è bene non parlarne in questa sede, piuttosto prepariamo un pellegrinaggio al museo nazionale.

 

2) Umanizzare. Se il primo passo era facilitato dal dipinto che andava solo colto come una mela matura, il secondo comincia a diventare più ostico ma Hofmann non si dà per vinto. Riesce a calare dei personaggi quasi metafisici nella mondanità più denigrante della stupidità umana, che giudica, insulta e ride dei nostri poveri ciechi. Forse la forma di ipocrisia più grande, criticare un cieco quando noi non siamo in grado con la vista di cui disponiamo di vedere oltre la materialità. Spesso a puntare il dito contro i ciechi di Hofmann sono dei bambini, simbolo di un’ingenua scemenza trasmessa per osmosi dall’ambiente circostante.

“La parabola dei ciechi” di Gert Hofmann, come descrivere un quadro

3) Nomi e attributi. Semplice quanto efficace, dare un nome ai ciechi li rende più umani (vedi punto sopra) e li distingue da colui che li ha invitati dal pittore per essere dipinti, che prende il nome di Chi-ha-bussato, perfettamente logico dal punto di vista di un cieco.

Uno dei ciechi, ad esempio, prende il nome di Spellato, già di per sé emblematico. Il primo tra i sei è Ripolus, che ci aiuterà a comprendere anche il prossimo punto:

«Di continuo sentiamo dire: chi sta davanti deve saper distinguere la luce dal buio. Anche se non vede ogni piccolezza, ad esempio la propria ombra, deve riconoscere almeno grossolanamente l’insieme, ad esempio la luce del sole. Non però come succede a noi, come calore sulla pelle, bensì come luce negli occhi. Anche se non vede veramente, deve poter quasi vedere. Uno così è Ripolus, quello con il bastone più lungo.»

 

4) Luce e colori. Qui la bravura parla da sola, se Hofmann è riuscito a inserire luci e colori ne La parabola dei ciechi, allora di sicuro può riuscirci chiunque con qualsiasi altra immagine. Non c’è trucco e non c’è inganno, perché la narrazione è presieduta da una seconda persona plurale composta dai sei ciechi del quadro. In questo Hofmann si aiuta dando a Ripolus, il meno cieco dei sei, un minimo di rilievo in più.

 

5) Peso. L’importanza data a un determinato personaggio, anche in termini di caratteri spesi in suo favore. Non solo un personaggio in realtà, si può parlare di peso riguardo qualsiasi elemento della storia. Hofmann gestisce le poco più di cento pagine per raccontare il dipinto, evitando di uscire fuori tema, e riuscendo così a trovare un equilibrio complessivo senza tradire lo spirito originario dell’opera. Per riuscirci il consiglio è quello di individuare nell’immagine di partenza la quantità e l’importanza degli elementi che la compongono. Spesso le immagini sono sovrabbondanti e descriverle risulta essere problematico, cerchiamo di capire meglio come fare con il prossimo punto.

“La parabola dei ciechi” di Gert Hofmann, come descrivere un quadro

6) Dettagli. Il segreto del raccontare le immagini lo si apprende sui banchi di scuola: sfruttare le parole chiave che riassumono in maniera completa qualcosa di più articolato.

Il genio di Hofmann sta nel scegliere come parola chiave del racconto il rapporto tra i sei e gli altri. In quel rapporto, invisibile nel quadro, ritroviamo quello tra lo spettatore e il dipinto stesso, ritroviamo l’interpretazione letterale del giudizio e delle emozioni che rendono tridimensionali i protagonisti. Ritroviamo, infine, nel rapporto tra i ciechi che cadono e il pittore il senso profondo dell’opera:

«La nostra rappresentazione, come proclama di continuo, riassume meravigliosamente le caratteristiche del mondo e il destino dell’uomo.»

 

7) Ambiente. Altro concetto semplice ma sottovalutato. Hofmann non si fa sfuggire di includere nel racconto tutti gli elementi scenici del quadro, anche da un punto di vista narrativo e non di mero esercizio intellettuale. Il paese, la strada, la siepe, etc. Per chi volesse approfondire avevamo già parlato di come descrivere il paesaggio.

«Ma, chiediamo, non c’è un ruscello, un fosso?

Sì, dice lei, dovete cadervi dentro.»

 

8) Spostamento. Parola ombrello per indicare tre punti di interesse su cui riflettere e trarre ispirazione. La dinamicità del racconto di Hofmann è costruita sull’esigenza di camminare per raggiungere il fosso e di cadervi. Questo è un primo livello di spostamento che, però, è già di forte impatto nel trasmutare qualcosa di statico come un quadro in una storia avvincente. Per chiunque ci voglia provare, può cercare sulla applicazione Telegram il gruppo “Paintings Place”, dove ogni giorno viene inviato un dipinto in alta risoluzione, o meglio ancora, per i puristi come il sottoscritto, andando di persona a visitare le collezioni museali di cui l’Italia è ricca.

Il secondo punto è già insito nel dipinto ed è l’allegoria della condizione umana, che Hofmann riesce a rendere digeribile con una seconda persona plurale che richiama un nesso impalpabile con il lettore. I ciechi siamo noi, anche se ci viene solo bisbigliato. Avevamo parlato di queste tecniche avanzate per porre il lettore alla giusta distanza dalla vicenda riferendoci al metalinguaggio come a uno strumento valido e versatile, che vale la pena di imparare a padroneggiare.

 

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Il terzo punto è lo spostamento da un contesto a un altro, per facilitarsi il lavoro di costruire una storia. Hofmann decide di non sfruttare questo stratagemma e di preservare integra l’autenticità dell’opera del maestro fiammingo. Ripropone l’ambientazione senza una rielaborazione posticcia nel descrivere La parabola dei ciechi, per evitare di far sbiadire la portata artistica del quadro.

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