La nuova “Tartaruga”, il grande romanzo classico senza confini. Intervista a Cristina Lupoli Dalai
La Tartaruga è stata tra le prime case editrici a occuparsi esclusivamente di letteratura e narrativa al femminile. Sorta negli anni Settanta, a Milano, ha offerto al pubblico italiano la possibilità di conoscere grandi scrittrici della letteratura mondiale, favorendo pure l’affermazione di molte voci di giovani e talentuose autrici italiane. In seguito il marchio Tartaruga edizioni entra nel gruppo Baldini Castoldi Dalai editore, pur mantenendo indipendenza e libertà nelle scelte editoriali. Nasce una nuova collaborazione con Cristina Lupoli che, nel 2009, ne prende la direzione. Noi di Sul Romanzo l’abbiamo incontrata per parlare della ripresa delle pubblicazioni della gloriosa La Tartaruga, dopo un lungo silenzio dovuto a movimentate vicende editoriali.
Torna in libreria La Tartaruga di Baldini & Castoldi. La sua storia viene da lontano: prima era una casa editrice, fondata da Laura Lepetit nel 1975, in seguito venne rilevata da Baldini Castoldi Dalai e convertita in collana. Vuole riassumerci in breve questo singolare percorso?
La fortuna e la bravura di Laura Lepetit, agli esordi della Tartaruga, furono di cavalcare il periodo del movimento femminista. Il suo grande acume fu quello di scegliere delle scrittrici bravissime: Virginia Woolf (Le tre ghinee è il primo libro edito dalla neonata realtà), Edith Wharton, Doris Lessing, Nadine Gordimer tra le altre. La Tartaruga ha pubblicato scrittrici italiane del calibro di Alice Ceresa, Anna Banti, Anna Maria Ortese, fino a Francesca Ramos, Grazia Livi, Franca Valeri e tante altre. Quando più tardi sono subentrata io, mi sono trovata in un periodo storico e politico in cui il femminismo non dico fosse superato; era, come dire, passata una stagione. I libri di saggistica o di narrativa che pubblicai non hanno avuto il successo che forse, qualche tempo prima, avrebbero avuto. Ricordo Francesca Molfino, Luce Irigaray, Chiara Ingrao, Emma Dante, Jennifer Johnston, Fay Weldon, Alessandra Dragone, Angelica Garnett, Roberta Torre. Ma, oltre che alla scrittura italiana e inglese, ho amato molto quella francese, Colette in special modo, ma anche la Tolstaja, la grande scrittrice ungherese Rakowsky, la cecoslovacca Petra Hůlová, la spagnola Montse Banegas. E Noémi Szécsi che il grande Nadas definisce come la scrittrice giovane più promettente del panorama europeo. Certo ho venduto, ma non così tanto. Molto andava in traduzioni, si pensi che la Rakowsky contava più di 600seicento pagine. L’amore e la passione di leggere c’erano ma, dopo varie traversie, la casa editrice fu costretta a chiudere. Era un peccato che La Tartaruga non ci fosse più. Perciò abbiamo pensato di riaprire la collana. Il mio amore è là, per quelle scritture che io definisco “classiche”, colme di storie nelle storie. In più c’è, talvolta, la fortuna di incappare in testi come Mayflowers di Annagrazia Bassi; mi ha commosso perché era quello che cercavo: una donna che scrive su sacrifici di donne e sul loro coraggio di andare in America nel periodo delle migrazioni. È un’autrice italiana che ha scritto un grande romanzo corale, un grande romanzo classico. La differenza tra la Tartaruga del passato e quella di oggi è che io oggi cerco anche dei grandi autori di tutto il mondo, che non sono mai usciti in Italia, o che sono finiti nel dimenticatoio. Quest’anno farò leggere storie di matrimoni sbagliati, di matrimoni per interesse, matrimoni combinati, storie di donne manipolatrici, storie di donne che sono pur sempre delle vittime. Il nostro è un ricco campionario di donne, senza confini.
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Anche la vicenda di Cristina Lupoli, alla quale potremmo affiancare il cognome del marito, Alessandro Dalai, è una storia da narrare che per certi versi si lega in maniera inestricabile alla Tartaruga. Vuole tracciare, in breve, com’è nata la sua passione per la letteratura e com’è approdata alla direzione della celebre collana?
Sono approdata alla Tartaruga in quanto privilegiata, perché moglie dell’editore Alessandro Dalai. Sono, in effetti, una mancata ricercatrice universitaria. Ho voluto fare Economia e Commercio in Bocconi – e all’epoca c’erano poche donne iscritte, quasi per fare dispetto ai miei genitori. In realtà stavo facendo un dispetto a me stessa. Delle materie insegnate alla Bocconi non poteva interessarmi di meno, ma volevo dimostrare ai miei genitori che ero in grado di fare una facoltà difficile. Ho insegnato economia aziendale per molto tempo, però la mia testa era nei libri.
Lei ha frequentato Economia e Commercio in Bocconi in anni cruciali, nel periodo della rivoluzione studentesca, nel Sessantotto.
Era molto difficile fare Economia e Commercio in quegli anni. Era ancora più difficile in una famiglia di sinistra come la mia, che diceva che mi stavo vendendo al capitalismo. Invece mi sono mantenuta agli studi con le borse di studio, ero una che studiava tantissimo, per cui non devo niente a nessuno e oggi sono felice di averlo fatto. Cercavo armonia nel bilancio, nel problem solving, davo a questi aspetti un vestito diverso rispetto a quel che dovevano avere. La umanizzavo. Trovavo un’armonia particolare nella chiusura di un bilancio, quando le cifre tornano e tutto quadra. Questo mi faceva amare una materia che non era avulsa dalla vita, era la vita quotidiana. Esci e compri, e paghi, intendo dire. Tanti mi chiedono perché mi sia piaciuto fare questi studi. Io rispondo in genere che amo l’armonia. I grandi matematici, come Piergiorgio Odifreddi e altri studiosi, lo dicono: c’è armonia nei numeri! Eppure la mia più grande felicità era sempre quella di tornare a casa e leggere un buon libro, e insegnare ai miei figli ad amare i libri.
È cresciuta in una famiglia che dava molta importanza ai libri?
Sono cresciuta, con mia madre, al tempo in cui un libro era un regalo, era il regalo del compleanno, quello della prima comunione. Il libro era un evento, era qualcosa di sacro. Mia madre ha centouno anni e vive in una casa piena di libri. Ancora adesso mi dice: «Perché quando te ne vai non prendi questi libri? Non so a chi finiranno». Mi deve regalare un libro per volta e c’è sempre questa “recita” che si ripete, perché il libro era un dono. Il culto del libro, nella mia famiglia c’è sempre stato. Poi da parte dei miei figli Michele e Lorenza c’è una passione per i giovani autori. Io invece mi commuovo ancora adesso se leggo George Gissing o Jacob Wassermann, o tutti gli autori che sto riportando nella collana.
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È venuta a contatto con questi libri leggendoli in lingua o si è avvalsa dei suoi contatti con i traduttori, coi curatori di precedenti edizioni in altre lingue?
Me li sono fatti tradurre dal russo, dal tedesco; degli inglesi, che potevo leggere in lingua, mi sono prima compilata delle schede e poi li ho letti interamente. Bisogna tuffarsi dentro il libro perché si nota quando una traduzione è solo letterale, non partecipe, e non coglie lo spirito dell’autore. Mi sono innamorata di George Gissing perché leggo spesso Small Talk sul «Financial Times»; non leggo le pagine economiche ma quelle culturali e c’era lo scrittore Anthony Quinn che confidava di tenere questo libro, Odd women, sul suo comodino, Le donne di troppo…
Per l’appunto, il libro col quale riapre la collana è Le donne di troppo di George Gissing. Il romanzo di un autore maschile, ma con protagoniste delle figure femminili, nella Londra di fine '800. Come mai questa scelta?
Sì, al maschile. Non ho mai amato le differenze di genere, specie per la scrittura. Un romanzo è bello a prescindere da uomo, donna, giovane o vecchio. L’autore è un uomo, ma parla di donne, e poi fa un ritratto, come Dickens, della situazione economica e sociale di quel momento. Le donne di troppo sono quelle che noi chiamiamo ora “single”. A fine '800 per le donne le scelte erano due: o ci si sposava o si stava in casa. Si faceva la governante, la tutrice, l’insegnante di lingua in casa. Finalmente, con l’emancipazione femminile si poteva diventare una segretaria o commessa ai grandi magazzini. Per le donne il matrimonio era un lavoro. Ti sposavi e ti mantenevano. Per un milione e mezzo di uomini c’erano due milioni di donne: ecco, cinquecentomila erano di troppo, non erano mantenute.
C’è un ritorno, secondo lei, dei lettori a questo genere di storie? Penso a Jane Austen.
Certo che sì. Penso anche che il momento per leggere Jane Austen non sia mai finito. Devo tanto alla Tartaruga per le mie letture. Ora c’è tutto un marketing su di lei interminabile. Per chi desidera approfondire c’è anche il giardino di Jane Austen, le strade percorse da Jane Austen, i consigli di Jane Austen per trovare marito, la cucina di Jane Austen. Per rilassarmi, io, per esempio, rivedrei infinite volte i film Orgoglio e pregiudizio, Ragione e sentimento, Emma. Sono quelle opere, in libri, saggi o film, che ti rimangono dentro nel tempo, che ti fanno sognare.
Dice che non ci sono differenze tra la scrittura al maschile e quella al femminile. Secondo lei quali sono le peculiarità della scrittura al femminile (a parte sottoporre al lettore le questioni e le problematiche socio-culturali del mondo femminile) rispetto a quella maschile, se ammettiamo una pur minima differenza nel modo di guardare, di pensare e di sentire delle autrici rispetto agli autori maschi?
Porto l’esempio di scrittori che sto esaminando in questo periodo, per esempio Jacob Wassermann, che entra nell’animo umano con un bisturi, descrivendo con minuzia quel che i personaggi provano in una data situazione. La donna è il collettore del sentire, quella che ha familiarità coi sentimenti. Personalmente ho trovato che sia Wassermann sia Gissing abbiano scritto libri che potevano esser scritti da Jane Austen, come da Virginia Woolf o da chiunque altra autrice di rilievo. Secondo me ci sono scritture al maschile e al femminile, ma le differenze risaltano quando le tematiche sono leggere: quando ci si addentra in profondità un grande scrittore è una grande scrittrice e viceversa. In questi autori ho trovato una bella capacità di scandagliare i sentimenti. Anche le copertine dei libri che formeranno la collana hanno queste peculiarità, queste scelte di fiori…
Sì, ho visto quella di Gissing in anteprima, sul web. È davvero bella.
Come se si trattasse di fiori di un giardino segreto. Sono, questi, dei romanzi che leggerei volentieri in un giardino fiorito dove posso ritirarmi in solitudine, dove non passeggia nessuno.
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Accanto a nomi di rilievo della scrittura al femminile di respiro internazionale, il merito della Tartaruga è stato quello di aver dato voce a molte autrici italiane: ci vuole ricordare qualche nome in particolare di autrice con la quale si è creata una relazione speciale, o qualche aneddoto singolare, su un libro o un’autrice, che le viene in mente?
In questo particolare momento le posso citare Francesca Marzia Esposito, con La forma minima della felicità. Un grande personaggio, una signora che amo è Chiara Ingrao. In Soltanto una vita c’è la vicenda di suo padre e sua madre durante la Resistenza, per cui è un pezzo di Storia. Sempre la Ingrao, in Il resto è silenzio, quando parla della Jugoslavia. Oppure sempre lei in Dita di dama, dove rappresenta le prime lotte sindacali delle donne, per sospendere il lavoro e andare a far pipì senza che si contassero i minuti. Questa capacità di ricostruire anche un particolare periodo storico e sociale: devi essere una brava autrice per farlo come si deve. Odore di ferro e di cacao di Alessandra Dragone è un libro di questi, anche se non ha avuto abbastanza successo perché è stato pubblicato in un momento difficile per la casa editrice di prima. Ci sono grandi storie d’amicizia con le autrici.
Tornando all’oggetto della nuova Tartaruga: come mai questo periodo di silenzio editoriale? Era impegnata su altri fronti o stavate riflettendo e valutando nuovi progetti? Come si presenta il nuovo progetto editoriale della Tartaruga e in cosa differisce, se c’è qualche differenza, rispetto alla linea editoriale del passato?
Negli ultimi anni ho vissuto la chiusura della casa editrice e di un pezzo di vita, e l’inizio, di conseguenza, di un’altra fase della vita e di una collaborazione con la nuova. Mi sono occupata del romanzo di Pacifico, de L’illusione del narcisista di Giancarlo Dimaggio, e di altri. In questi anni di silenzio della Tartaruga leggevo con avidità romanzi di tanti straordinari autori, che aveva pubblicato la vecchia Baldini & Castoldi, quella fondata nel 1897 dai signori Baldini e Castoldi. Ho chiesto ai proprietari della nuova Baldini & Castoldi, Michele Dalai e Filippo Vannuccini: «Perché non posso occuparmi, oltre a questa serie di libri che sono già fuori diritti, come George Gissing o Jacob Wassermann, anche di scrittrici che mi appassionano per la loro scrittura?». Ed eccomi qua. Farla rivivere è stato un dono incredibile. La possibilità di occuparmi delle mie passioni del passato, andare in biblioteca, farmi arrivare libri da tutto il mondo. È stato quel che sognavo di fare da sempre: il ricercatore.
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In parte ci ha già svelato qualcosa: qualche prossima uscita editoriale per La Tartaruga?
Abbiamo detto: George Gissing. Poi un libro di Sofj’a Tolstaja. E Jacob Wasserman conLa terza esistenza, che riesce a richiamare anche i suoi tre libri precedenti; “terza” perché Wassermann chiudeva una trilogia con questa storia. Questo libro contiene, in parte, episodi della vita dell’autore, che sposò una donna tremenda dalla quale non è riuscito ad allontanarsi, il racconto di com’è caduto nella trappola di questa signora e poi di come non sia stato in grado di liberarsi, di uscirne. Lui è povero e viene conquistato da questa donna. C’è tutto in questi libri: letteratura e vita, il meglio che un lettore possa desiderare. Poi magari metto anche Elizabeth Bowen, per riprendere qualcosa della vecchia Tartaruga, Sto comunque riportando alla luce storie fantastiche di donne. Grandi storie “classiche”, senza genere e senza confini.
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