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La notte in cui Van Gogh si tagliò l’orecchio raccontata da Paul Gauguin

La notte in cui Van Gogh si tagliò l’orecchio raccontata da Paul GauguinTutti noi sappiamo che nel dicembre del 1888 Vincent van Gogh si tagliò un orecchio in preda a un raptus di follia. Quello che però risulta difficile ricostruire è come andarono i fatti quella notte. Molti biografi hanno provato a raccontare una versione dell’accaduto ma forse quella più veritiera è quella riportata da un testimone quasi oculare. Stiamo parlando di Paul Gauguin che, molto amico di Van Gogh, si era recato ad Arles dietro insistenza del pittore olandese che l’aveva più volte invitato.

A testimonianza anche dell’ammirazione che nutriva per il collega francese, all’inizio di ottobre del 1888 infatti Van Gogh scrisse a Gauguin:

Mi piacerebbe vederti molto fiducioso del fatto che avremo un certo successo nel creare qualcosa di duraturo.

 

Nonostante le condizioni economiche piuttosto misere, Van Gogh spese un bel po’ di denaro per comprare due letti che sistemò nella stessa piccola camera da letto. Nel tentativo di rendere i suoi modesti posti letto «belli come il boudoir di una donna, davvero artistico», decise di dipingere una serie di grandi girasoli gialli sulle pareti bianche. Scrisse alcune supplichevoli lettere a Gauguin e, quando l’artista francese gli mandò un autoritratto, Van Gogh lo mostrò eccitato a tutti i suoi concittadini come il ritratto di un amico amato e che stava per fargli visita.

Gauguin infine accettò l’invito di Van Gogh e arrivò ad Arles nella metà di ottobre. Qui avrebbe trascorso circa due mesi, fino all’episodio drammatico del taglio dell’orecchio.

La notte in cui Van Gogh si tagliò l’orecchio raccontata da Paul Gauguin

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Nei suoi diari, il pittore francese fornisce l’unico racconto di prima mano delle strane, quasi surreali circostanze che portarono Van Gogh ad automutilarsi.

Gauguin ricorda che lui aveva provato a resistere agli insistenti inviti di Van Gogh almeno in un primo tempo. «Un vago istinto mi avvertiva di qualcosa di anormale» scrive. Ma alla fine fu «sopraffatto dal sincero e amichevole entusiasmo di Vincent». Arrivò tardi di notte e, non volendo svegliare Van Gogh, attese l’alba in un caffè della cittadina. Il titolare lo riconobbe all’istante come l’amico il cui ritratto Van Gogh aveva mostrato a tutti con orgoglio.

Dopo che Gauguin si sistemò a casa dell’amico, Van Gogh lo accompagnò in giro per mostrargli Arles e le sue bellezze femminili, anche se Gauguin annota che «non potevo essere troppo entusiasta» per le donne del posto. Dal giorno dopo, iniziarono a lavorare. Gauguin si meravigliava della chiarezza di Van Gogh. «Non ammiro la pittura ma ammiro l’uomo,» scrisse. «È così fiducioso, così calmo. Io sono così incerto, così a disagio». Ma Gauguin prevede il tumulto che verrà di lì a poco:

Tra due esseri come lui e me, uno è un perfetto vulcano, l’altro anche in eruzione, come se internamente si stesse preparando una sorta di guerra. In primo luogo, ovunque e in ogni cosa ho trovato un disordine che mi ha scioccato. La sua scatola di colori poteva a stento contenere tutti quei tubi, accatastati disordinatamente e mai chiusi. Nonostante tutto questo disordine, questa confusione, qualcosa scintillava dalle sue tele e da quello che diceva, anche… Possedeva una grande gentilezza, o piuttosto l’altruismo del Vangelo.

 

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La notte in cui Van Gogh si tagliò l’orecchio raccontata da Paul Gauguin

Presto i due uomini iniziarono a sostenersi economicamente. Condivisero anche gli obblighi della convivenza – Van Gogh faceva la spesa e Gauguin cucinava – e vissero insieme per quello che in seguito Gauguin avrebbe indicato come un’eternità. In realtà furono appena nove settimane. A distanza di anni riflette su quest’esperienza nei suoi diari:

Nonostante la rapidità con cui la catastrofe si avvicinava, nonostante la febbre di lavoro che mi aveva colto, mi sembrò fosse trascorso un secolo.

Anche se il pubblico non aveva nessuna idea di questo, due uomini stavano realizzando lì un lavoro colossale che era utile a entrambi. Forse agli altri? Ci sono alcune cose che portano frutti.

 

Nonostante il frenetico entusiasmo e l’abnegazione con cui Van Gogh si avvicinava ai suoi quadri, Gauguin li vedeva come «niente di più delle più dolci tra le incomplete e monotone armonie». Perciò decise di fare quello per cui Van Gogh l’aveva effettivamente invitato, cioè fungere da mentore e maestro. Del resto Gauguin era l’unica persona che Van Gogh indicava come “Maestro”. E forse proprio per questo trovò il giovane artista molto ricettivo alle critiche:

Come tutte le nature originali che sono dotate di una grande personalità, Vincent non aveva paura dell’altro e non era testardo.

 

Da quel giorno, racconta Gauguin, Van Gogh – “il mio Van Gogh” – iniziò a fare «progressi sorprendenti», trovò la sua voce come artista e il suo stile personale, coltivando il senso singolare del colore e della luce per il quale ora viene ricordato.

Ma poi qualcosa cambiò. Avendo trovato i suoi angeli, Van Gogh scoprì i suoi demoni. Gauguin racconta il tempestoso clima emotivo che sembrava sopraffare Van Gogh, l’inizio della sua discesa nella malattia mentale che un secolo dopo sarebbe stata indicata come disordine bipolare:

Durante gli ultimi giorni del mio soggiorno, Vincent divenne eccessivamente duro e rumoroso, e poi silenzioso. Diverse notti l’ho scoperto mentre tentava di alzarsi e venire nel mio letto. A cosa posso attribuire il mio risveglio proprio in quel momento?

Era abbastanza per me per dirgli con durezza: “Cosa succede, Vincent?”, ma lui tornava al suo letto senza una parola e si abbandonava a un sonno pesante.

 

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Van Gogh completò un autoritratto che considerò come il dipinto di sé “diventato pazzo”. Quella sera i due uomini si diressero al caffè locale. Gauguin racconta la scena che seguì, allo stesso tempo come teatrale e piena di una sincera tragedia umana:

Vincent prese dell’assenzio. All’improvviso versò il bicchiere e il suo contenuto sulla mia testa. Evitai il colpo e, prendendolo coraggiosamente tra le mie braccia, uscimmo dal caffè, verso la piazza Victor Hugo. Non molti minuti dopo, Vincent si ritrovò nel suo letto dove, in pochi secondi, si addormentò e non si svegliò fino al mattino.

Quando si svegliò, mi disse con molta calma: «Mio caro Gauguin, ho un vago ricordo di averti offeso la scorsa notte.»

Risposi: «Ti perdono senza problemi e con tutto il mio cuore, ma la scena di ieri potrebbe accadere di nuovo e se anch’io fossi colpito potrei perdere il controllo e strozzarti. Perciò permettimi di scrivere a tuo fratello e dirgli che sto andando via.

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Ma il dramma del giorno prima era solo una scossa del terremoto che sarebbe arrivato quella fatale sera, due giorni prima del Natale del 1888. «Mio Dio, che giorno!» esclama Gauguin nel raccontare quello che accadde quando decise di fare una passeggiata solitaria prima di sera per schiarirsi le idee:

Avevo appena attraversato la piazza Victor Hugo, quando dietro di me ho sentito dei passi noti, rapidi, irregolari. Mi sono girato nell’istante in cui Vincent si stava lanciando verso di me con un rasoio aperto in mano. In quel momento il mio aspetto deve aver giocato un grande potere su di lui, perché si fermò e, abbassando la testa, corse verso casa.

 

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Gauguin si lamenta che da allora, per anni, è stato spesso afflitto dal rimpianto di non aver inseguito e disarmato Van Gogh. Invece, si diresse in un hotel e andò a letto, ma era così agitato che non riuscì ad addormentarsi fino alle prime ore del mattino. Alzatosi alle sette e mezza, si diresse verso la città, dove si trovò davanti a una scena improbabile:

Raggiungendo la piazza, vidi una grande folla. Vicino a casa nostra c’erano alcuni gendarmi e un gentiluomo con un cappello a forma di melone che era il sovrintendente della polizia.

Ecco cos’era successo.

Van Gogh era tornato a casa e aveva immediatamente tagliato il suo orecchio proprio vicino alla testa. Deve aver impiegato qualche tempo a fermare il flusso di sangue, per questo il giorno dopo c’erano molti asciugamani bagnati sul pavimento di pietra nelle due camere al piano inferiore. Il sangue aveva macchiato le due stanze e la piccola scala che conduceva alla nostra camera da letto.

Quando fu in condizione di uscire, con un basco piantato in testa, andò a una certa casa dove, in mancanza di una compagna, uno può prenderne una, e diede alla tenutaria il suo orecchio pulito e chiuso in un pacchetto. «Ecco un mio souvenir», disse.

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Quella “certa casa” era il bordello che Van Gogh frequentava e nel quale aveva trovato alcune sue modelle. Dopo aver dato alla tenutaria il suo orecchio, corse a casa, sistemò una lampada sul tavolo vicino alla finestra e andò diritto a dormire. Una folla di persone si radunò lì sotto in pochi minuti, curiosa di sapere cosa fosse successo. Gauguin scrive:

Non avevo neanche il più debole sospetto di tutto questo quando mi presentai alla porta della nostra cosae il signore con il cappello di melone mi disse in un tono più che severo: «Cosa avete fatto al vostro compagno, signore?»

«Non lo so…»

«Oh, sì… lo sapete molto bene… è morto.»

Non auguro a nessuno un tale momento, e ci volle molto tempo per riprendermi e controllare il battito del mio cuore.

Paura, indignazione, dolore, vergona dinanzi a tutti quegli sguardi che mi stavano facendo a pezzi, mi soffocavano, e risposi, balbettando: «Signore, mi lasci salire su. Possiamo spiegarci lì.»

Poi a bassa voce dissi al sovrintendente della polizia: «Sia abbastanza gentile, signore, da svegliare quest’uomo con grande cura, e se chiede di me gli dica che sono partito per Parigi; la mia vista potrebbe rivelarsi fatale per lui

Devo riconoscere che da questo momento il sovrintendente della polizia fu ragionevole e intelligentemente mandò a chiamare un dottore e una carrozza.

Una volta svegliatosi, Vincent chiese del suo compagno, della sua pipa e del suo tabacco; pensò anche di chiedere della scatola che era giù e conteneva il suo denaro, – un sospetto, devo dire! Ma avevo già sofferto abbastanza per sentirmi colpito anche da questo.

Vincent fu condotto in ospedale dove, appena arrivò, cominciò a delirare di nuovo.

Tutto il resto è noto a chiunque abbia qualche interesse a conoscerlo e sarebbe inutile parlarne se non fosse per la grande sofferenza di un uomo che, confinato in un manicomio, a intervalli mensili recuperò la ragione quel che basta per capire la sua condizione e dipingere furiosamente gli ammirevoli quadri che conosciamo.

 

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Su pressione dei vicini e della polizia locale, Van Gogh fu presto rinchiuso in un ospedale psichiatrico. Da qui, scrisse a Gauguin della sua tensione tra il desiderio di riprendere a dipingere e la sensazione che la sua malattia mentale fosse incurabile, ma poi aggiunse: “Non siamo tutti pazzi?”

Diciassette mesi dopo, si uccise. Una tragedia che Gauguin racconta con la dolcezza di un uomo che amava la persona perduta:

Si sparò allo stomaco, e solo poche ore prima di morire stava sdraiato a letto fumando la sua pipa, nel pieno possesso delle sue facoltà mentali, pieno di amore per la sua arte e senza odio per gli altri.

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