“La notte dei petali bianchi” di Gianfranco Di Fiore
La notte dei petali bianchi è il romanzo d’esordio di Gianfranco Di Fiore, edito da Laurana nel 2011. Una scrittura cruda e cupa rappresenta senza fronzoli la grigia realtà del Nordest nella zona tra Brescia, Chiari e Rovato. Il protagonista si chiama Dante: l’omonimia col grande poeta toscano non allude a nessun paradiso da raggiungere, ma solo a un grande inferno da attraversare, nella vana speranza di non essere risucchiati nel vortice dei propri fallimenti.Come la Commedia dantesca è suddivisa in tre cantiche, così anche il romanzo è diviso in tre parti.
«Sono stato consegnato alla provincia e al freddo della campagna nel profondo Nord. Vivo in un luogo che non ha una sua identità né un colore preciso; una piccola città fatta di nebbia e silenzi, di macchine costose e negozi a volte troppo affollati ma spesso vuoti. Una città dai sapori diversi e dalle storie taciute…».
È in questo scenario privo di prospettive che Dante conosce Samira, una giovane marocchina di 15 anni che vende fiori nei pressi del cimitero. I due hanno una breve storia d’amore, troncata dal padre della ragazza, poiché, a suo parere, una musulmana non può sposare un cattolico. Le differenze religiose ed etniche non sono soltanto il motivo del naufragio della liaison tra Dante e Samira, ma anche lo scenario di intolleranza in cui versa la provincia: immigrati, stranieri, occupanti sono i termini usati ossessivamente da Dante per rappresentare la diversità che non vuole accettare. Fa più paura la solitudine oppure la diversità?
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La narrazione procede tra continui sbalzi temporali, non sempre chiari, che anticipano e rimandano gli eventi. Il cielo assume tutte le tonalità del grigio, cui si somma il nero spurgato dalle ciminiere. L’unica giornata estiva è quella in cui Dante viene abusato per la prima volta dal padre, chiamato genericamente il Vecchio. Ciò rende ancora più parossistica la sofferenza del ragazzo: Dante aveva solo 12 anni, quando tutto questo ha avuto inizio. L’adolescenza negata lo getta in un’immaturità perenne che lo costringe nella dimensione di figlio, anche a 50 anni. Ha con la madre un rapporto quasi incestuoso. Gli piacciono le ragazzine, ne è consapevole e tuttavia Dante è un uomo incapace «di far del male a un acaro».
La vita del protagonista è sconfortante, non vi sono speranze. Gli abusi subiti, l’alcolismo, la fine dell’amore con Samira e l’integralismo islamico sono l’inferno personale di Dante. Il linguaggio aderisce alla realtà, senza ricorrere all’uso di metafore o iperboli che possano indorare la pillola. Eppure, dopo ogni caduta, Dante spera in un rinnovamento che puntualmente non si verifica. I capitoli sono brevi, a volte sembrano le scene di un film ambientato tra capannoni e fabbriche di un Nord un tempo produttivo e ora non più. «È il mio nord, la terra del benessere che non ha più forza né denaro, un vaso di cristallo pieno di razze e di odio. Resto a guardare i lampioni narcotizzare l’asfalto e i vetri del bar, dietro i quali non si vedono clienti né tv accese».
Non ci sono filtri nella descrizione degli abusi o nella rappresentazione dell’alcolismo e della violenza. Molte righe vengono impiegate per parlare dell’infibulazione che Samira subisce a 6 anni. La vicenda personale di Dante si inscrive nella vicenda più grande del Nordest ora in crisi, che non sa affrontare l’integrazione con la società multietnica che negli ultimi vent’anni ha cambiato la fisionomia del Paese. Di Fiore riesce a farsi bardo di quanto accade con un registro linguistico per niente aulico che inchioda il lettore fino all’ultima pagina.
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