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“La nemica” di Irène Némirovsky

Irène Némirovsky, la nemicaIrène Némirovsky scrisse un romanzo breve ad oggi inedito in Italia e meritoriamente pubblicato da Elliot, La nemica, che appare distante da testi di sicuro interesse e piacevolezza come Suite francese, che ha reso celebre l’autrice in tutto il mondo, e l’intenso David Golder.

Le ragioni di tale scarto, incolmabile qualunque angolatura interpretativa si utilizzi, sono sicuramente da rintracciarsi nell’appartenenza della Nemica ad un periodo giovanile, ma anche nell’autobiografismo palese che deve aver reso impervio alla scrittrice trattare un materiale privato bruciante, da cui era urgente liberarsi e rispetto al quale premeva vendicarsi. Inspiegabile, altrimenti, quella distanza.

Pare indubbio dunque che la storia narrata si nutra del dramma di un rapporto intimo, di impossibile gestione nella vita e di tentata catarsi nella letteratura. A suffragare tale ipotesi (anche senza sondare le vicende esistenziali dell’autrice nonché certe sue puntuali affermazioni), la notizia che il testo venne pubblicato originariamente a puntate sulla rivista letteraria «Les Oeuvres libres» dell’editore Fayard nel 1928 a nome di Pierre Nérey, il cui cognome è anagramma di Irène. L’autrice, uscita allo scoperto, ha scelto di sottrarsi ad un aperto riconoscimento.

La nemica è il suo secondo lavoro. Ucraina naturalizzata francese, di padre ebreo (come ebreo sarà il futuro marito), convertitasi al cattolicesimo, deportata ad Auschwitz, dove morirà di tifo nel 1942, a soli 39 anni: tratti biografici fondamentali questi, ma non sufficienti a comprendere una personalità complessa e contraddittoria quale può meglio dispiegarsi nella Vita di Irène Némirovsky (Olivier Philipponnat - Patrick Lienhardt, Adelphi, 2009) e in Mirador: Irène Némirovsky, mia madre (Elisabeth Gille, Fazi, 2011).

Perché la “nemica” è la madre della protagonista, Gabri. La narrazione, condotta da un osservatore esterno che tuttavia per la quasi totalità del romanzo si cala nel punto di vista della giovane, ritrae la bambina e poi adolescente come abbandonata a se stessa, tradita nel suo naturale bisogno d’amore e tenerezza da una genitrice frivola ed egoista, lei stessa vittima di vuoti, disperatamente e ciecamente alla ricerca di una vitalità piena anche a risarcimento alle miserie di un’esistenza segnata dalla povertà; risarcimento che la donna si illude di ottenere narcisisticamente sfoggiando la propria bellezza in un’ossessione esclusiva al culto di sé, parallela a quella della passione per il giovane cognato, condotto a Parigi dal marito dopo il suo forzato esilio motivato dal tentativo di risollevare le sorti economiche della famiglia. Morbosamente fascinata dal lusso superficiale e corrotto della borghesia parigina, la madre Francine abbandona Gabri e la sorella minore Michette a sé stesse, condannandole ad un’indipendenza prematura e ad un’autoeducazione che, senza sani e stabili punti di riferimento, non può che condurre a un esito distruttivo. La piccola Michette morirà, sola. Gabri intraprenderà il suo percorso di formazione mossa da un odio e da un rancore profondi nei confronti di Francine, decisa a vivere la sua femminilità liberamente: moglie adultera (di un ebreo arricchito che sa e finge di non sapere); madre dispensatrice di principi che è la prima a non rispettare. Una madre odiata – necessariamente – per la sua indifferenza; che non vede e non ascolta; e scava dunque in Gabri un astio ed un risentimento destinati a tramutarsi presto in desiderio conscio di vendetta. Ecco dunque Gabri optare per una doppia vita, introdottavi da un’amica pure danneggiata – e inizia allora il viaggio alla devalorizzazione di sé fino all’atto di amore violento impostole da un nobile russo decaduto –; e poi cedere alla relazione con l’amante della madre. Tra pulsioni insofferenti di ogni controllo razionale, in assenza di una moralità foss’anche debole a fungere da argine, nell’assoluto dominio di istinti e perversioni che conducono a rapporti deviati e devianti, non può che profilarsi al finale la tragedia.

Tralasciando osservazioni relative al linguaggio mancando la lettura del testo in originale, è evidente che la narrazione possiede un ritmo narrativo sicuro (scrittrice di talento è Irène Némirovsky). Ma la vicenda è raccontata con una superficialità a tratti persino fastidiosa; scorre attraverso luoghi, relazioni, anime, emozioni accostati paratatticamente senza alcuno scavo significativo che permetta loro di incidersi nella mente e nell’animo del lettore. Le singole causalità psicologiche sono chiare (da manuale), come lo è il loro succedersi diacronico. Ma le passioni e i tormenti non sono né espressi né indagati come sarebbe accaduto se l’autrice fosse stata più matura e, soprattutto, capace di distanziarsi da una materia per lei troppo scottante. La collocazione storica, che pochi tratti decisi e opportuni avrebbero permesso di delineare risultandone arricchiti il panorama e lo spessore stesso del testo (tanto più considerando la psicologia dei personaggi legata a doppio filo alla crisi del primo dopoguerra), è sostanzialmente assente, apparendo accennata più come nota di colore che come veicolo di senso.

Vola e sorvola, Pierre Nérey; come se dovesse farlo perchè tutto ribolle troppo; come se contasse solo scrivere – cioè dire ad alta voce – ciò, violando finalmente il velo ipocrita e il silenzio in una non più sostenibile ansia di liberazione.

La nemica è dunque il racconto di una duplice vendetta: quella di Gabri e quella della scrittrice. Per la quale, più della tragedia finale, pare contare la frase che seccamente, ex abrupto, conclude l’opera: “Signore, Signore, perchè mi colpisci in questo modo?”. È la madre a parlare; lei colpita ora da un dolore definitivo, ma ancora ottusa e priva di strumenti per comprendere e gestire sé ed il mondo, al punto da ostinarsi a non assumersi responsabilità e colpe per la corsa al degrado della figlia. Gabri ha corso come ha corso Irène. Doveva correre, Irène. Per arrivare a ciò che solo le premeva: la condanna estrema attuata attraverso il racconto della verità e l’urlo del proprio disprezzo.

Perchè dunque si dovrebbe leggere La nemica? Per la vicenda narrata, certo. Ma anche e soprattutto perché permette di approfondire la conoscenza di una vicenda esistenziale ed artistica ricca e complessa, aggiungendo un prezioso tassello alla comprensione del microcosmo biografico-psicologico e letterario di Irène Némirovsky. Microcosmo capace di destare commozione e partecipazione ma anche indignazione al punto da essere a volte oggetto di una lettura selettiva. Penso al David Golder in cui il ritratto caustico e feroce, a tratti persino disturbante, di un ricco ebreo di cui si narra il percorso di degradazione, presenta moltissimi degli stereotipi antisemiti di cui fece grande uso il Nazismo (e non solo). E per questo risulta ancora oggi scandaloso e imbarazzante. Forse che invece l’autrice intendeva colpire le devianze e le perversioni di certi aspetti della società ebraica a cui apparteneva? E porsi in confronto critico con la civiltà in cui ci si è formati e di cui si è parte non è forse intrinseco alla creazione letteraria? E forse che non ha nutrito il ferro rovente della scrittrice l’intima conoscenza di certa parte della cultura ebraica, alla quale ha avuto accesso preferenziale per via biografica e attraverso relazioni non edificanti? Forse che la grande colpa della Némirovsky è stata quella di essere un’ebrea che colpiva dall’interno? Con l’aggravante della sua conversione? Se è vero che un testo letterario non può comprendersi ed apprezzarsi quando astratto dalla biografia e cultura in cui è germinato.

La nemica è dunque tessera necessaria a capire e serenamente valutare l’universo di una donna complessa come lo è la sua opera. Grazie dunque alla casa editrice Elliot che ci permette di conoscerla meglio nel suo percorso letterario, inscindibile – come non sempre accade così prepotentemente – da quello esistenziale. Di là da ogni pregiudizio. Ci stupisce sempre Irène Némirovsky.

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