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La necessità della solitudine. Intervista a Edgar Degas

La necessità della solitudine. Intervista a Edgar DegasMeglio conosciuto come “pittore delle ballerine”, oggi vi presentiamo l’intervista impossibile al pittore francese, Edgar Degas. Siamo stati invitati a pranzo a Palazzo dei Pignatelli di Monteleone a Napoli, dove visse per lungo tempo. L’artista infatti aveva sangue italiano, era nipote di un banchiere napoletano.

Piuttosto scuro di carnagione, naso aquilino, Degas amava la solitudine, soprattutto mentre lavorava: il suo studio era inviolabile e non poteva entrare nessuno. Come testimonia Paul Valéry in una lettera: «Degas piaceva e dispiaceva. Aveva e ostentava il peggior carattere del mondo, con giorni felici ma imprevedibili. Era divertente e sapeva sedurre con una mescolanza di burla, di commedia e di familiarità, in cui c’era qualcosa del garzone degli studi di pittura d’una volta, e non so quale ingrediente venuto da Napoli». Abbiamo pranzato insieme: vitello al naturale e maccheroni cotti in acqua senza sale. A quanto si narra, Degas temeva l’ostruzione e l’infiammazione intestinale e per tale motivo la sua cucina era “salutare”. Dopo questo nostro incontro siamo venuti a conoscenza di molti aspetti relativi alla vita e al pensiero dell'artista che spesso i libri dedicati alla storia dell'arte tralasciano, ma che risultano invece fondamentali per capire meglio l'essenza delle sue opere.

 

 

Un piacere poter pranzare con lei, signor Degas. Ora però ci vuole una buona tisana. Quale ci consiglia?

Una tisana di gambi di ciliegie. Una bevanda diuretica. Ahimè, sono ridotto a questo: la vescica non ha più l’elasticità necessaria. Sono obbligato a svegliarmi dalle cinque alle sei volte per notte. Che miseria. E poi, che lo voglia o no, tutti i giorni prima di cena devo far camminare le mie vecchie gambe.

 

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Il movimento fa sempre bene. Ma non si annoia qui sempre solo?

Certo, essendo solo mi annoio. Di sera sono piuttosto stanco della giornata trascorsa e vorrei chiacchierare un po’. Ci sono momenti in cui sono talmente irritato della mia solitudine e preoccupato per la mia pittura.

 

Mi chiedo sempre per quale motivo lei non si sia sposato…

A che mi serve una moglie? Immaginate di avere tra i piedi una persona che alla fine di un’estenuante giornata di lavoro nello studio vi dice: «È un bel quadro, caro!». L’artista deve vivere in disparte, e della sua vita privata non si dovrebbe sapere nulla.

 

Sì, ma forse avere una compagna le avrebbe giovato, dal momento che lei è stato anche accusato di misoginia…

Ah! Le donne mi odiano, sentono che le privo delle loro armi, che le mostro senza civetteria, come animali che si puliscono. Mi vedono come un nemico. Ed è una fortuna perché se mi avessero amato sarei stato un uomo finito.

 

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Ecco appunto. Insomma, abbiamo capito che non si sentiva a suo agio con le donne.

Vista la situazione, la cosa migliore era impiegare il tempo a studiare il mestiere. Ci voleva una grande pazienza nel duro cammino che avevo intrapreso.

Parlo sempre di me. Ma cosa volete che dica un uomo solo e abbandonato a se stesso come me? Ha solo se stesso dinanzi a sé, non vede e non pensa che a se stesso. Sono un grande egoista.

 

Non si preoccupi. Siamo qui a intervistare lei.

Avrei voluto essere famoso e sconosciuto. Tutti abbiamo talento a venticinque anni. La difficoltà è avercelo a cinquanta.

 

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Non avremmo potuto ammirare la sua arte! Lei è considerato il “pittore delle ballerine”. Lo sa che c’è un costume di scena portato dalle ballerine che è denominato “tutù Degas”? Dovrebbe essere orgoglioso di ciò.

La necessità della solitudine. Intervista a Edgar Degas

Mi chiamano il “pittore delle ballerine”! Non capiscono che la ballerina è stata per me solo un pretesto per dipingere belle stoffe e per rappresentare dei movimenti…

 

Sì, vero. Però sono molte le opere che ha dedicato al mondo della danza. Come dimenticare la celebre scultura Ballerina di 14 anni. Era una modella, Marie von Goethem, figlia di un sarto e di una lavandaia. Era una petit rat dell’Opéra.  Fece molto discutere la modalità con cui realizzò quest'opera, al punto da indignare i critici del Salone degli Impressionisti del 1881...

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Critica d’arte! È una professione? E dire che noi abbiamo la stupidità, noialtri pittori, di sollecitare i complimenti di quella gente e di metterci nelle loro mani! Che vergogna! Dovremmo accettare che parlino delle nostre opere? Come se le Muse non ci dessero l’esempio lavorando in solitudine! Sole e nel raccoglimento: è così che l’Antichità le rappresenta. Se per caso si riuniscono non è affatto per conversare, la conversazione degenera in discussione. È per danzare che si ritrovano. Altrimenti non si frequentano. La scultura mi è servita per donare alla pittura e ai disegni più espressione, più ardore e più vita.

 

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Ora capisco per quale motivo i suoi colleghi dicevano che lei avesse un carattere particolare. Neppure i critici d’arte sopportava...

Ero o sembravo duro con tutti per una sorta di inclinazione alla brutalità che nasceva dai miei dubbi e dal mio cattivo umore. Mi sentivo così mal fatto, così scarsamente provveduto di mezzi, così fiacco, mentre mi sembrava che i miei calcoli artistici fossero così giusti. Tenevo il broncio con tutti, anche con me stesso.

 

Però non si direbbe osservando i suoi dipinti. Sembrano così… vivi e pacati.

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L'arte non è ciò che vedi, ma ciò che fai vedere agli altri. È il movimento delle cose e delle persone che distrae e persino consola, se si può essere consolati quando si è così infelici. Se le foglie non si agitassero, come sarebbero tristi gli alberi, e noi pure!

 

Lei ci ha lasciato molte opere, ma è sempre rimasto con i piedi per terra.

Bisogna avere un’alta idea non di quello che si è fatto, ma di quello che si potrà fare un giorno, altrimenti non vale la pena di lavorare. Signora, io sono come il cavallo da corsa che vince il Gran Prix: mi accontento della mia razione d’avena.

 

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Parliamo un po’ dei suoi colleghi. Sappiamo che conobbe Manet mentre studiava al Louvre. Entrambi abbandonaste gli studi all’Accademia di Belle Arti per continuare il mestiere da autodidatta...

Quel Manet! Da quando ho fatto ballerine, anche lui ne ha fatte… Imitava sempre. Non ha mai potuto far altro che imitare.

 

Sì, siamo a conoscenza di ciò che accadde tra lei e Manet. L’abbiamo letto nel libro Artisti rivali di Sebastien Smee. Che personaggio, Manet: neppure con il suo collega Monetandava molto d'accordo. Venendo alla sua tecnica: come nasceva un suo dipinto?

Ciò che faccio è il risultato della riflessione e dello studio dei grandi maestri. Non so nulla dell’ispirazione, della spontaneità, del temperamento. Ritraggo le persone nei loro atteggiamenti abituali e quindi se è tipico di una persona sorridere, la faccio sorridere. Vi assicuro che nessuna arte è meno spontanea della mia.

 

Come scrissero alcuni suoi amici, lei molto difficilmente si accontentava e raramente trovava che un quadro andasse bene. Per essere soddisfatto bisognava che l’opera fosse compiuta non nei particolari, ma nell’impressione complessiva che doveva dare. Come questo: Due ballerine alla sbarra.

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Decisamente, l’annaffiatoio è un idiota, bisogna assolutamente che lo tolga!

 

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Non credo possa farlo: l'opera si trova al Metropolitan Museum di New York. Andò anche in America, giusto? Nel 1872 soggiornò per un periodo a New Orleans, città d'origine di sua madre e dove vivevano i suoi due fratelli. A tal proposito, ecco qui il dipinto: Cotton office in New Orleans. Abbiamo in primo piano un uomo col cappello a cilindro che è suo zio; il personaggio dietro che legge il giornale è suo fratello...

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Ah, l’oceano! La Scotia su cui ho viaggiato per andare in America era una nave inglese, veloce e sicura. Ci ha portati (ero con mio fratello René), in dodici giorni, da Liverpool a New York la Empire City. Triste traversata! Non sapevo l’inglese, non lo so neppure ora.

 

Siamo un blog che parla di libri ed è scontata una nostra domanda: a lei piace leggere?

Non posso più farlo. La mia domestica mi legge il giornale. Ho letto però il Don Chisciotte. Ah, che uomo felice e che bella morte! Ho letto l’Assommoir e Nana di Zola.

Quella concezione dell’arte di Zola, che in un libro[1] si concentra tutto su un solo soggetto, per poi passare a un altro nel libro successivo, mi sembrava puerile. Zola è un gigante che studia l'elenco del telefono. Noi pittori non abbiamo uno spirito sintetico. Però abbiamo avuto in dono più sensibilità degli altri.

 

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Si narra che lei prese a riferimento proprio il testo di Zola, Assommoir, per produrre il suo celebre dipinto L'assenzio, dove compaiono due suoi conoscenti in balia degli effetti di tale sostanza. Anzi, so che dovette precisare pubblicamente che i due non erano alcolisti, ma erano solo suoi modelli per la composizione.

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Noi diciamo con un sol tratto più cose di un letterato in un volume. Per questo fuggo i critici e tutti i pittori che si lasciano abbindolare dai loro discorsi: noi ci diciamo due parole in gergo… ed è abbastanza.

 

Avrei molte cose da chiederle, ma il tempo sta per scadere. La prossima volta la invito io a pranzo. Che ne dice?

Certamente, ma ascoltatemi bene. Ci sarà per me qualcosa di cotto senza burro? Niente fiori sulla tavola. e alle sette e mezzo precise… Posso esser certo che rinchiuderete il vostro gatto e nessuno porterà cani? E se invitate donne, non saranno per caso profumate? Che orrore tutti quegli odori! Quando ci sono cose che sanno di buono, come il pane grigliato… e persino un fino odore di mer… Ah! Pochissime luci! I miei occhi, i miei poveriocchi!

 

Certo, signor Degas: presteremo attenzione.

 

Per approfondire consigliamo la lettura dei seguenti testi:

- Edgar Degas, Lettere e testimonianze, Abscondita, 2002.


[1]    Probabile che Degas si riferisse a Romanzo sperimentale, pubblicato da Zola nel 1880.

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