La natura, luogo ideale in cui rifugiarsi. Intervista a Claude Monet
Un museo a cielo aperto: questo è ciò che si percepisce entrando nel giardino della casa di Claude Monet. Siamo giunti sino a Giverny per intervistarlo, in quella che fu la sua dimora, un luogo magico perché ogni angolo ricorda un suo dipinto. Abbiamo atteso il suo arrivo sul celebre "ponte giapponese" verde che decora il parco che egli stesso progettò, da cui, oltre a percepire un intenso profumo di lavanda, si scorgono numerosi salici piangenti, differenti varietà di fiori e le celebri ninfee. Con la sua lunga barba, cappello di paglia e occhiali da sole colorati per proteggere la vista, Monet ci raggiunge tenendo in mano alcune foto del suo giardino.
Che posto meraviglioso, signor Monet...
Io amo l'acqua, ma amo anche i fiori: devo a loro l'essere diventato pittore. È per questo motivo che ho deciso di riempire lo stagno con delle piante. Un giorno presi un catalogo e ho scelto a caso. Questo è tutto.
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Lei non ha bisogno di presentazioni. Posso dire che personalmente nutro da sempre profonda ammirazione nei suoi confronti. Vuole però presentarsi come farebbe con chi la incontra per la prima volta?
Sono un parigino di Parigi. Vi sono nato nel 1840 sotto il regno del buon re Luigi Filippo, in un mondo tutto dedito agli affari dove le arti venivano considerate con ostentato disprezzo. Ho trascorso la mia prima infanzia a Le Havre, dove mio padre si era stabilito nel 1845 per seguire le sue attività commerciali, e quei miei primi anni sono stati vagabondi. Ero indisciplinato per natura, nessuno è mai stato in grado di sottomettermi a qualche regola.
Che scolaro era?
Il poco che so l'ho imparato a casa. La scuola mi ha sempre fatto l'effetto di una prigione. E non sono mai riuscito ad adattarmici. Era così bello stare all'aria aperta. Questo durò fino all'età di quattordici o quindici anni, con grande disperazione di mio padre.
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Quindi lei si annoiava a scuola?
Mi ero fatto bene o male un'infarinatura di base. Direi che gli studi non sono mai stati troppo noiosi perché riempivo di ghirigori i margini dei libri, decoravo la carta azzurra dei quaderni con disegni fantasiosi, rappresentandovi anche i volti e i profili dei miei insegnanti. A quindici anni mi ero già fatto una fama di caricaturista a Le Havre [luogo in cui visse, nda]. L'abbondanza delle richieste abbinata all'insufficienza dei sussidi m'indussero a prendere una decisione che scandalizzò la mia famiglia: mi feci pagare i ritratti. E così diventai una persona importante in città.
E come approdò a Parigi?
Mi munii di lettere di presentazione presso certi appassionati di pittura che sostenevano Boudin[1] e filai dritto a Parigi. Ah, se sono diventato pittore lo devo a Eugène Boudin. Lui si occupò dell'educazione definitiva del mio occhi. Andai a far visita agli artisti e ricevetti da loro consigli eccellenti.
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Distribuì curriculum, quindi. E come si avvicinò alla pittura?
Trascorsi sette anni di servizio militare e due anni fantastici ad Algeri. Alla fine mi ammalai gravemente e mi spedirono a casa. Passai sei mesi di convalascenza a disegnare e dipingere con fervore.Vedendomi così accanito malgrado lo stato di debolezza, mio padre si persuase che nulla mi avrebbe fatto desistere, che nessuna circostanza avrebbe avuto ragione di una vocazione così determinata. Mi disse: «Ma sia chiaro che stavolta t'impegnerai seriamente. Voglio vederti in uno studio, sotto la guida di un maestro conosciuto. Se ti rimetti a fare di testa tua non ci penserò due volte a tagliarti i finanziamenti». Capii benissimo la necessità di non scoraggiare mio padre.
E a quanto pare ci riuscì: i suoi Covoni sono stati battuti all'asta a 75,8 milioni di euro. All'epoca il suo modo di dipingere era considerato una novità, non furono poche le occasioni in cui venne anche aspramente deriso dai critici.
Nuotavo nella ricchezza e mi lanciai anima e corpo nella pittura en plein air, una novità pericolosa. Era il 1867: il mio stile aveva iniziato a delinearsi. Ero ancora lontano dall'aver adottato il principio della divisione dei colori che mi avrebbe aizzato contro tanta gente. Fui silurato quando presentai questa nuova pittura al Salon. Ricordo ancora ciò che mi disse una sera Manet: «Ma guardate un po' questo giovanotto che vuole fare della pitura en plein air! Come se gli antichi non ci avessero mai pensato!».
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Manet aveva il dentino avvelenato però con lei...
[sorride] Al Salon del 1866 fin dall'ingresso era stato accolto da grandi acclamazioni: «Eccellente il tuo dipinto, caro amico!». Strette di mano, congratulazioni... Quale non fu la sua sorpresa quando si rese conto che la tela per cui veniva tanto osannato in realtà era una delle mie: Camille in abito verde.
Che vergogna! Mi sarebbe piaciuto vedere la sua faccia. Lei era entusiasta del suo lavoro?
Sì, ma facevo un mestiere da cani e mettevo a dura prova le mie gambe. Salivo,poi ridiscendevo e poi ancora risalivo. Fra uno studio e l'altro, come riposo, esploravo ogni sentiero sempre alla ricerca del nuovo e così quando giungeva la sera ne avevo abbastanza. Mangiavo bene, mi mettevo a letto e, incrociate le braccia, pensavo beatamente a Giverny, un occhio alle mie tele appese al muro, poi un po' di lettura e crac, un bel sonno per tutta la notte.
Le sue opere sono state dipinte principalmente en plein air. Perché decise di uscire dal suo studio?
Tutto ciò che si dipinge sul luogo, ha sempre una forza che non si ritrova più in atelier. Nel gennaio del 1879, per esempio, dipinsi sul ghiaccio. La Senna era ghiacciata e io mi sistemai sul fiume dandomi da fare per infossare in qualche modo cavalletto e seggiolino. Ogni tanto mi portavano una borsa dell'acqua calda, ma non per i piedi, io non sentivo freddo, ma per le dita irrigidite dalle quali il pennello minacciava di cadere.
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Si racconta che, mentre era intento a dipigere le scogliere ad Etratat, fu sorpreso da un'ondata dell'alta marea che fece volare in aria la sua tela.
Ero tormentato dalle cose impossibili.
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Ma veniamo all'opera forse tra le più conosciute Impression: soleil levant, con la quale si diede inizio alla pittura impressionista. Non c'è disegno preparatorio, ma il colore è steso direttamente sulla tela con pennellate veloci e brevi. In esso si percepisce l'atmosfera circostante attraverso l'accostamento di colori caldi e scuri: una vera e propria impressione del fenomeno naturale...
Una buona impressione si perde così velocemente...
Ho avuto il solo merito di aver dipinto di fronte alla natura, cercando di rendere le mie impressioni davanti agli effetti più fuggevoli, e sono desolato di essere stato la causa del nome dato a un gruppo, la maggior parte del quale non aveva nulla di impressionista.
Sì, lei non amava molto le definizioni. Aveva altri hobby?
Oltre alla pittura e al giardinaggio, non sapevo fare nulla!
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Le ninfee sono uno dei molti elementi naturali che animano il giardino di Giverny. Eseguì molti dipinti con questi soggetti, pur non essendo in buone condizioni di salute dal momento che una cataratta le impedì di vedere nitidamente, come accadde del resto al suo amico Degas. Si legge, inoltre, che lei avesse impiegato un giardiniere solo per mantenere le ninfee nell'ordine compositivo desiderato, giusto?
Ho impiegato molto tempo per comprendere le mie ninfee... le coltivavo senza pensare a dipingerle. Poi un giorno all'improvviso ho avuto la rivelazione delle "fate" del mio stagno. Ho preso la tavolozza e dal quel momento non ho avuto più altre modelle se non loro.
Della sua vita mi ha sempre colpito la tenacia con cui ha affrontato le difficoltà, non poche come mi potrà confermare. Ha distrutto in un solo colpo trenta tele in preda alla rabbia o alla disperazione! I suoi inizi furono duri: non aveva neppure i soldi per comprare i colori e quando vennero a pignorare i suoi beni a causa di pesanti debiti, lei distrusse duecento tele! I suoi colleghi la rimproverarono, così lei si rimise a dipingere e ne realizzò altre ottanta in pochi giorni...
Sono sempre stato al di sopra delle forze di un vecchio qualeero. Tuttavia volevo riuscire a rendere ciò che provavo. Avevo distrutto dipinti, ne avevo ricomiciatoaltri perché speravo che un giorno tutti questi sforzi avrebbero potuto portare a qualcosa... Ho voluto la perfezione e ho rovinato quello che andava bene.
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Si narra che quando raggiunse l'agiatezza, viaggiasse a folle velocità con l'auto che acquistò e per tale motivo il sindaco di Giverny fu costretto a pubblicare un avviso, in cui si dichiarava che le auto che attraversavano il paese non avrebbe dovuto superare la velocità di un cavallo al trotto.
Certo che alla gente vengono in mente le cose più stupide...
Tra i suoi colleghi quello che amava di più era Cézanne. Si dice che lei, quando si trovava in difficoltà nel terminare un'opera, coprisse con un drappo i dipinti del suo amico appesi al muro della sua casa...
Sì, Cézanne è stato il più grande di tutti noi. Mi sentivo un pigmeo ai piedi di un gigante.
Lei non amava la folla, i viaggi, le manifestazioni pubbliche...
La vita di città non faceva per me. Qui sono dentro un sogno, Giverny è per me un posto magnifico.
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Il nostro incontro con Monet è proseguitocon la visita degli interni della sua casa, dove tutto sembra essere rimasto come all'epoca: la camera con la sua carta da parati floreale, la sala da pranzo in cui il pittore amava cibarsi dei suoi piatti preferiti: asparagi, arrosto, anatra e insalata condita con abbondante olio d'oliva e pepe. La cucina decorata da splendide ceramiche blu, scelte dallo stesso artista, luogo in cui egli, però, non mise mai piede per cucinare, lasciando a moglie e serve l'arduo lavoro.
Giverny è un piccolo paese poco lontano da Parigi che merita una visita. Immergersi all'interno della natura del parco della casa dell'artista non solo è rigenerante, ma dona la splendida sensazione di essere per un istante protagonista di un dipinto del padre delle impressioni che ne ha catturato ogni angolo.
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Se non potete recarvi a Giverny, allora vi consigliamo la visita alla mostra dedicata alla Storia degli impressonisti inaugurata il 29 ottobre 2016 e che si concluderà il 17 aprile 2017 presso il Museo di Santa Caterina a Treviso, con la quale il curatore Marco Goldin celebra i vent'anni dell'Associazione Linea d'ombra.
Per approfondire consigliamo la lettura dei seguenti testi:
- Claude Monet, La mia storia. Skira, 2011.
- Kain Singer, Monet. Taschen, 2006.
- Sue Roe, Impressionisti. Biografia di un gruppo. Editori Laterza, 2006.
- Ross King, Il mistero delle ninfee. Rizzoli, 2016.
[1] È considerato il vero primo maestro di Monet.
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